Pellegrino Artusi e la nascita della cucina nazionale italiana (3)

Oggi la cucina è sicuramente un argomento alla moda. Siamo invasi da chef che pontificano dagli schermi televisivi e su internet, troppo spesso banalizzando l’aspetto culturale che ci lega alla nostra tradizione gastronomica. Non c’è invece nessuna politica seria per contrastare a livello mondiale tutti quei prodotti che, con nomi fasulli, simili a quelli delle specialità originali, costano centinaia di miliardi di mancati introiti alle eccellenze alimentari italiane. Come Artusi aveva capito perfettamente, la cultura gastronomica è una parte rilevante della nostra identità culturale. Non dobbiamo quindi sorprenderci che, nei secoli passati, alcuni importanti umanisti si siano dedicati all’argomento.

 Anche se è sicuramente il più famoso tra gli autori di manuali e ricettari, Artusi ha avuto numerosissimi predecessori perché, già dalla fine del Trecento, erano cominciati a circolare un gran numero di articolati testi dedicati alla cucina come il Compendium de naturis et proprietatibus alimentorum di Barnaba de Reatinis, le Regole della Sanità et della natura de’ cibi del senese Ugo Benzi, e il Libreto …de tute le cose che se manzano più communamente e più che commune del padovano Michele Savonarola (sono tutti medici famosi). Per i manuali di cucina veri e propri sono fondamentali un Liber de coquina, che si pensava redatto all’interno della corte angioina ma che, più probabilmente, ha visto la luce in Sicilia. C’è poi un secondo testo, di origine toscana, il Libro della Cocina, che ha dato origine poi a tanti altri manuali. Entrambi vengono riutilizzati e adattati in ambito europeo fino a tutto il XV secolo.

L’umanista Bartolomeo Sacchi (part.), raffigurato nell’affresco di Melozzo da Forlì nei Musei Vaticani.

Ma oltre ai medici, la redazione di ricettari con consigli vari sulla vita e la salute è un argomento che attira anche gli studiosi che, evidentemente, considerano l’argomento degno di una dotta trattazione. L’opera che si può considerare come una summa delle conoscenze che precedono il Rinascimento è il De honesta voluptate et valetitudine di Bartolomeo Sacchi (1421-1481), più noto come Platina, soprannome che gli deriva da Piadena, suo luogo di nascita. Il libro è dedicato a Bartolomeo Roverella, vescovo di Adria, Ravenna e, in seguito, governatore di Perugia e di Ascoli. La prima edizione del libro è datata Roma 1475, per essere poi seguita da edizioni a Lovanio, Venezia, Parigi, Strasburgo, Lione, Colonia, e questo ci fornisce un’idea della sua rilevanza europea.

Bartolomeo Sacchi è un sofisticato umanista, diventato precettore dei figli del marchese Ludovico Gonzaga a Mantova e che, ben presto, si trova al centro di una importante rete di intellettuali, artisti e politici. Su raccomandazione del Gonzaga si reca a Firenze dove si perfeziona nella conoscenza del greco frequentando i circoli dell’Accademia Platonica ed entrando in stretto contatto con Cosimo de’ Medici, Marsilio Ficino, Poggio Bracciolini, Pico della Mirandola, Leon Battista Alberti, il meglio dell’Umanesimo di quel periodo. Trasferitosi a Roma, frequenta l’Accademia Romana, legata allo studioso Pomponio Leto, e diventa amico e protetto dell’umanista Enea Silvio Piccolomini, che sale al soglio pontificio col nome di Pio II, di cui scrive la biografia. Dopo alterne vicende seguite alla morte di Pio II, è infine nominato prefetto della Biblioteca Vaticana da Sisto IV, il papa che ha legato il proprio nome alla nascita della Cappella Sistina. Nei Musei vaticani c’è uno splendido affresco di Melozzo da Forlì che raffigura l’umanista nel momento in cui riceve la nomina dal pontefice.

Il fallito tentativo di riunificare greci e latini

Il suo ruolo centrale all’interno della rete umanistica che continuava la tradizione del Concilio di

Il cardinale Bessarione, in un ritratto che si trovava all’interno dello studiolo di Federico II a Urbino. Oggi, purtroppo, il dipinto è al Louvre.

Firenze, un tentativo generoso di riconciliare le chiese cristiane d’Occidente e Oriente, è indicato dall’incarico, conferitogli espressamente da Sisto IV, di tenere l’elogio funebre in onore del cardinale Bessarione (1403—1472). Bessarione era il più importante prelato e studioso orientale convinto sostenitore dell’unione con Roma, tanto da essere nominato porporato dalla curia vaticana. Il tentativo di riconciliazione era iniziato con il Concilio di Basilea, poi trasferito a Ferrara nel 1438. Qui giunge una delegazione orientale guidata dall’imperatore Giovanni VIII Paleologo, formata dal patriarca di Costantinopoli Giuseppe II (che accetta di baciare il piede del pontefice Eugenio IV privatamente), da Bessarione, dal metropolita di Mosca Isidoro di Kiev, e Giorgio Gemisto Pletone, studioso di Platone e artefice della sua riscoperta. Oltre agli interessi teologici, l’imperatore preme per la riconciliazione tra Roma e Costantinopoli per ottenerne l’aiuto contro i turchi che premono alle frontiere dell’impero bizantino.

Nel 1439 il Concilio si trasferisce a Firenze, dove l’arrivo solenne e pittoresco della delegazione orientale è ritratto nella cappella dei Magi a Palazzo Medici Riccardi da Benozzo Gozzoli. Viene firmato un atto di unione, letto pubblicamente da Bessarione, che però, al ritorno in oriente della delegazione, viene ritrattato. Bessarione rimane fedele all’accordo e viene nominato cardinale col titolo dei SS Apostoli, la chiesa romana dove è sepolto. Un suo ritratto, che faceva parte della serie degli uomini importanti, era conservato all’interno dello splendido studiolo di Federico II a Urbino. Gli Uniati di Ucraina, Slovacchia e Transilvania sono tutto quello che rimane dell’accordo. Nel 1975, Paolo VI baciò i piedi dell’inviato del patriarca di Costantinopoli per sanare l’antica ferita. Mi scuso per i dettagli storici, ma servono a far comprendere chi fosse Bartolomeo Sacchi e la sua rilevanza all’interno dell’Umanesimo quattrocentesco.

Gli umanisti e la cucina

Il libro del Platina, la cui stesura inizia nel 1467, non è un ricettario, come lo si intenderebbe oggi, ma un trattato su come mangiare e su cosa mangiare, condito anche di informazioni scientifiche sulle norme per una corretta alimentazione e per conservare la salute. Ha quindi un approccio globale dove l’uomo viene considerato nella sua totalità di carne e spirito, come un microcosmo che riflette il macrocosmo, reso splendidamente dal bellissimo disegno dell’uomo vitruviano di Leonardo. Alcune sue citazioni esemplificano perfettamente le premesse filosofiche da cui parte. L’autore esordisce spiegando la nobiltà del compito che si è prefisso, collocandolo in una tradizione “alta”:

 “È del tutto falso che la materia da me impresa a trattare non si addica ad un uomo civile: anche l’autorevole magistero di sommi filosofi conferma che colui che abbia a nutrirsi razionalmente sarà considerato un benemerito della comunità non meno di colui che li abbia portati in salvo sul campo di battaglia”.

Ricordiamo che nell’Italia delle signorie i banchetti rivestivano un ruolo cruciale nelle strategie dinastiche, nella stipula di contratti di matrimonio e di alleanza. Il cuoco che mantenesse in buona salute il signore e aumentasse la sua fama di ospite magnanimo e generoso ricopriva perciò un ruolo di primo piano. Platina prosegue poi illustrando quali sono le radici filosofiche della sua trattazione:

“La parola ‘piacere’ non è stata riprovata né da Platone né da Aristotele, i quali anzi ne parlarono con le opportune distinzioni. Solamente il lusso e la dissolutezza di Metrodoro e di Geronimo hanno fatto sì che alla dottrina e alla scuola di un uomo eccellente come Epicuro fosse attribuita una nomea di corruzione”.

 L’umanista respinge quindi le argomentazioni di chi lo accusa di occuparsi di cibi come se fosse un goloso dicendo:

“Vorrei che [i miei accusatori] fossero parsimoniosi e moderati come lo è il Platina, per sua disposizione naturale e per norma di vita: oggi non vedremmo tanti frequentatori di taverne nella nostra città, tanti ghiottoni, tanti crapuloni, tanti parassiti, tanta gente che esalta i piaceri libidinosi e che va cercando con zelo tante cose astruse per pura ingordigia e avidità”.

Come in ogni trattato dotto, termina spiegando quali sono state le sue fonti di ispirazione:

 “Ho scritto delle cose che si mangiano seguendo l’esempio di Catone, uomo di eccellente virtù, di Marrone, sommo fra i dotti, di Colummella e di Celio Apicio, non già per esortare i lettori a una vita lussuosa, ché anzi nei miei scritti ho sempre cercato di distoglierli dal vizio, bensì per giovare a un uomo costumato che desideri la buona salute e un vitto rispondente al decoro piuttosto che colui che ricerchi il superfluo; e in secondo luogo, per mostrare ai posteri che questa nostra età ha avuto ingegni i quali hanno ardito, se non eguagliare gli antichi, almeno imitarli in ogni genere del dire”.

La trattatistica rinascimentale

L’ispirazione immediata per il trattato del Platina è il Libro de arte coquinaria, di Maestro Martino da Como, cuoco personale del Patriarca di Aquileia. Il Platina condivise con lui esperimenti di arte culinaria condotti in un clima di familiarità e di considerazione reciproca e controllati di volta in volta sul ricettario che Maestro Martino aveva messo insieme intorno al 1450 per proprio uso e, probabilmente, per quanti fossero intenzionati a servirsene. Platina però usa un approccio molto diverso, non solo perché inquadra il suo lavoro in un contesto culturale e scientifico, ma anche perché fa spesso riferimento anche ai prodotti locali che conosce personalmente e che cita costantemente. Il testo, diviso in dieci libri, non inizia con delle ricette ma consiglia come scegliere il luogo dove abitare, gli esercizi fisici da fare, come dormire, cosa fare appena alzati e via dicendo, mostrando subito che la buona cucina non è assolutamente disgiunta dall’osservanza delle norme igienico-sanitarie necessarie a mantenersi in salute. Quasi certamente, Artusi non conosceva il lavoro di Bartolomeo Sacchi, riscoperto soltanto negli ultimi decenni, ma è evidente che i due autori usano un approccio globale molto simile.

Come abbiamo visto, i libri di cucina rinascimentali non sono elencazioni di ricette e dei modi di realizzarle, ma veri e propri trattati filosofici che intendono tramandare il giusto approccio verso la nutrizione e la salute. Non possiamo poi trascurare il fatto che anche alcuni testi poetici possono rivelarsi una fonte preziosa di informazioni. Un repertorio molto articolato della gastronomia cinquecentesca può essere infatti ricavato dal Baldus, un poema in latino del mantovano Teofilo Folengo (1496-1544). Cingar, un compagno di bagordi del protagonista, parla di un festino degli dei, descrivendone la dimora, i palazzi e, in particolare, la cucina, facendovi seguire venti doctrinae cosinandi, vere e proprie ricette riprese dalla trattatistica del tempo. Nella versione definitiva del poema, il cuoco maggiore del re di Francia viene presentato come un vero e proprio eroe che dirige aiutanti e inservienti come farebbe un generale sul campo di battaglia. Alcuni studiosi hanno notato che il pranzo regale di Francia descritto nel poema è composto da ricette italiane e riflette i conviti della corte dei Gonzaga, ma anche i grassi incontri conviviali che erano in uso presso i Benedettini, l’ordine a cui apparteneva Folengo.

Frontespizio della prima edizione del trattato di Bartolomeo Scappi.

Non posso chiudere quest’ultimo articolo senza fare un breve riferimento a Bartolomeo Scappi, il più importante cuoco del Rinascimento. Nato a Dumenza, in provincia di Varese, nei primi decenni del ‘500 e morto dopo il 1570, è autore di una fondamentale Opera (1570) che in qualche modo riassume la sua lunga esperienza di lavoro, svolta a servizio dei signori di Milano, Venezia, Bologna, alla corte di Giulio II e Pio IV, per diventare infine “cuoco segreto”, cioè personale, di Pio V a Roma. Il suo è un orizzonte italiano che guarda alle realtà locali, cittadine e territoriali e in qualche modo tenta di riassumerle, senza postulare ordini di valori. Vive e opera a Roma, che non è più la capitale di un grande impero che si estende su più continenti ma riceve e ingloba una realtà ormai di tipo nazionale. Anche Scappi ha un’impostazione comparativa che percepisce e comunica come “italiana”.

Nel caso delle torte dolci e salate, tipicamente italiane, Scappi cita quelle di Milano, Genova, Bologna, Napoli, con le differenze che stanno negli ingredienti, nei condimenti, nella presenza delle uova, nella forma. Non c’è una torta ‘italiana’. È italiano il genere della torta. Scappi ha una metodologia antologica, che mette insieme metodologie diverse, comparando le pratiche gastronomiche del sud, del nord, dell’est e dell’ovest. Italiana è la rete di consuetudini, saperi, gusti che di volta in volta qualificano concretamente, e diversamente, l’oggetto comune. Come spero di aver dimostrato, il trattato di Artusi affonda le proprie radici in un humus antico e fertilissimo, uno dei motivi d’orgoglio di questo Paese.
(fine)

Galliano Maria Speri