Mario Tchou, ingegnere geniale e padre dell’informatica in Italia (1)

Oggi, quando si parla di tecnologie avveniristiche, di supercomputer o di intelligenza artificiale la mente corre immediatamente alla Silicon Valley, oppure ai grandi centri di ricerca cinesi. Pochi connazionali e quasi nessuno nel mondo sanno che, a cavallo degli anni ’50 e ’60, il Bel Paese fu all’avanguardia nella nascente informatica, ma anche nella chimica e nelle macchine utensili. Il primo computer interamente a transistor fu progettato e costruito in Italia, come pure il primo personal computer, grazie all’illuminata politica industriale di Adriano Olivetti e al genio operativo dell’italo-cinese Mario Tchou e dei personaggi straordinari che collaboravano con lui. Purtroppo, entrambi morirono troppo presto e il cosiddetto “miracolo economico italiano” si incamminò mestamente verso l’oblio.

Dopo il ventennio fascista e le immani distruzioni del Secondo conflitto mondiale, l’Italia seppe trovare, sotto la direzione di Alcide De Gasperi, lo spirito giusto per mobilitare le risorse materiali e morali per ricostruire il Paese creando le basi per il proprio futuro. Grazie anche ai fondi del Piano Marshall, concessi in modo intelligente dagli Stati Uniti, non solo si raggiunse velocemente il livello produttivo prebellico ma l’Italia fece un vero e proprio balzo in avanti nel settore manifatturiero e in quello scientifico. Una delle ragioni del successo fu dovuto all’adozione del modello americano della big science, derivato direttamente dal “Progetto Manhattan”. Il termine era stato coniato da Alvin M. Weinberg, uno dei fisici del progetto, e poi ampliato da Vannevar Bush, consigliere scientifico di Roosevelt e poi di Truman, che nel 1945 aveva redatto il rapporto “Science: the Endless Frontier” in cui si teorizzava la scienza come fondamento dello sviluppo, della prosperità e anche della sicurezza militare.

I dati del “miracolo”

Tra il 1956 e il 1963 l’economia italiana conosce una fase espansiva senza precedenti nella storia nazionale. Mentre in Francia la produzione industriale nel 1954 superava soltanto del 18% quella del 1929 e in Gran Bretagna del 61%, in Italia e in Germania l’indice sale da 78 a 178 tra il 1945 e il 1954. Il tasso medio annuo di crescita del capitale fisso nell’industria supera il 7% dal 1951 al 1961 e tocca l’8,1% nelle attività manifatturiere propriamente dette. Tra il 1954 e il 1961 gli investimenti privati crescono del 152%. Nel giro di cinque anni, a partire dal 1959, la fabbricazione di autoveicoli quintuplica, la produzione di frigoriferi e televisori aumenta di quattro volte. Nello stesso periodo le esportazioni italiane crescono del 16,1% ogni anno ma soprattutto il maggior incremento delle esportazioni complessive è dovuto a prodotti industriali finiti, la cui quota era già cresciuta dal 48 a più del 63% sul totale fra il 1949 e il 1961. Questi sviluppi sono dovuti a pochi, eccezionali individui, tra cui spicca il nome di Enrico Mattei, partigiano, politico e poi visionario manager industriale con l’ENI, la compagnia petrolifera nazionale da lui fondata.

Enrico Mattei (1906-1962). A differenza del cartello delle compagnie petrolifere anglo-americane, l’ENI offriva ai Paesi produttori il 50% delle royalties. Nella foto, Mattei stringe la mano del ministro dell’Economia del Marocco nel 1958.

Nel nuovo clima creato da Mattei, che aveva puntato tutto sullo sviluppo di know-how nazionali e sulle nuove tecnologie, emergono figure come il fisico Edoardo Amaldi, Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963, Domenico Marotta, che nel 1948 crea il Centro internazionale di chimica e biologia, che dà vita ad un impianto di produzione per la penicillina che trasforma l’Italia in uno dei Paesi principali nella dispensazione del farmaco, superando Gran Bretagna e Stati Uniti. Un altro nome fondamentale è quello di Adriano Olivetti, un industriale lungimirante che capisce immediatamente che l’Italia deve competere nel settore delle tecnologie avanzate, il vero motore dello sviluppo nazionale, lontano dagli stereotipi del turismo di massa, pizza e mandolini.

La Silicon Valley italiana

Adriano non è un semplice imprenditore. La politica dell’azienda è quella di destinare il profitto prima di tutto agli investimenti, poi alle retribuzioni e ai servizi sociali e, in ultimo, agli azionisti, con il vincolo di non creare mai disoccupazione. Nella sua concezione, l’impresa non è soltanto un luogo di lavoro ma, innanzitutto, un luogo sociale e di condivisione. Nel suo libro La città dell’uomo, egli sviluppa le basi del principio che, secondo la sua filosofia, deve guidare l’uomo a quattro virtù cardinali: bellezza, amore, verità e giustizia. Crea quella che gli storici hanno definito una forma di “capitalismo sociale”. Nel 1956, nello stabilimento di Aglié l’orario di lavoro viene portato da 48 a 45 ore a parità di salario e viene creata una commissione paritetica per il controllo dei ritmi di lavoro. Adriano fonda anche un movimento politico chiamato Comunità. Lui sarà l’unico eletto in parlamento.

Il 17 settembre 1949 Enrico Fermi aveva visitato gli stabilimenti Olivetti a Ivrea e suggerito di sviluppare la ricerca nell’elettronica. Adriano capisce subito che l’elettronica riveste un’importanza fondamentale per il progresso dell’umanità. Nel 1952, suo fratello Dino va negli USA a studiare il mercato e apre a New Canaan, nello stato del Connecticut, un vero e proprio centro di ricerche elettroniche. Alla Columbia University conosce un giovane ingegnere italo-cinese, Mario Tchou, a cui viene proposto di guidare il laboratorio di ricerca sull’elettronica. Dopo aver avuto un lungo colloquio con Adriano Olivetti, Tchou, che avrà un ruolo fondamentale negli sviluppi di questo settore nel Belpaese, accetta di tornare in Italia e comincia a reclutare i migliori cervelli sul mercato.

Adriano Olivetti (1901-1960), fece progredire l’industria di famiglia passando dalla meccanica all’elettronica avendo il mondo come prospettiva di crescita e in concorrenza con le grandi multinazionali americane.

Nel frattempo, all’Università di Pisa, durante la sua ultima visita in Italia, viene chiesto ad Enrico Fermi un parere su come utilizzare al meglio i 150 milioni di lire che erano stati stanziati dalle amministrazioni comunali di Pisa, Livorno e Lucca per un acceleratore di particelle, poi costruito a Roma. Dice Fermi: “Interrogato circa le varie possibilità di impiego di tale somma, quella di costruire in Pisa una macchina calcolatrice elettronica mi è sembrata, fra le altre, di gran lunga la migliore. Essa costituirebbe un mezzo di ricerca di cui si avvantaggerebbero in modo, oggi quasi inestimabile, tutte le scienze e tutti gli indirizzi di ricerca”. Fermi muore a Chicago pochi mesi dopo. Giulio Racah, suo allievo a Roma e poi professore di Fisica a Pisa, affermerà che quella dichiarazione è stato “l’ultimo dono lasciato da Fermi in eredità all’Italia”.

Nel 1955 l’Università di Pisa approva la costruzione di una Calcolatrice elettronica pisana (Cep). L’anno successivo viene firmata una convenzione in base alla quale l’Università avrebbe costruito la Cep per scopi di ricerca, mentre la Olivetti avrebbe attinto da lì le basi progettuali per creare il primo calcolatore elettronico commerciale da destinare al mercato. Il gruppo, guidato da Mario Tchou, viene prima ospitato all’interno dell’Università di Pisa, per poi trasferirsi nella vicina frazione di Barbaricina. Tchou, che non ha nulla dell’accademico tradizionale, sceglie i ricercatori non per quello che sanno già ma per la loro apertura alle idee nuove e gioca un ruolo cruciale per passare da un elaboratore a valvole, voluminoso e con un dispendioso consumo di elettricità, ad un elaboratore completamente a transistor, molto più moderno e funzionale. Nell’ottobre del 1959 è pronto Elea 9003 – acronimo di Elaboratore elettronico automatico – terzo prototipo dopo Elea 9001 e Elea 9002, il primo calcolatore a transistor commerciale della storia. Il design è innovativo ed è stato pensato dal giovane e brillante architetto Ettore Sottsass.

Dalla Cina con amore

Durante la Grande Guerra, un giovane cinese, Yin Tchou, arriva in Italia alla ricerca di macchinari per l’industria della seta. Nel 1918 inizia a lavorare all’ambasciata cinese presso la Santa Sede a Roma e tre anni dopo è raggiunto nella Capitale dalla moglie Evelyn Wauang, una donna colta ed emancipata. Ben presto la famigliola cresce con la nascita di Maria nel 1922, nel 1924 arriva Mario e nel 1926 Memé. I giovani Tchou sono molto ben integrati nella realtà romana: sono studiosi e diligenti, frequentano corsi di musica e sport e il giardino della loro casa è frequentato da persone che poi lasceranno un segno nella vita italiana. Nel 1942 Mario consegue la maturità classica e si iscrive al corso di ingegneria presso la Regia Università degli Studi di Roma. Completa brillantemente i primi tre anni di Ingegneria industriale e nel 1945, su insistenza del padre e dopo aver vinto una borsa di studio, parte per gli Stati Uniti.

Nel 1947 Mario consegue il Bachelor of Electrical Engineering alla Catholic University of America a Washington e nello stesso anno si trasferisce a New York dove inizia a insegnare al Manhattan College, frequentato da molti italoamericani. Nel 1949 ottiene il Master of Science al Polytechnic Institute di Brooklyn con una tesi sperimentale intitolata “Ultrasonic Diffraction”. Date le sue grandi competenze scientifiche, a partire dal 1950, diventa consulente dello studio legale Ostrolenk Faber, specializzato nel settore del copyright. Nel 1952 la Columbia University gli conferisce, a soli 28 anni, l’incarico di assistant professor di Ingegneria elettronica. Grazie alle brillanti capacità che gli vengono riconosciute, in poco tempo, Mario Tchou diventa direttore del prestigioso Marcellus Hartley Laboratory, responsabile nel settore delle ricerche dell’ingegneria elettrica ed elettronica.

(continua)

Galliano Maria Speri