Nagorno-Karabakh: espansionismo turco e pulizia etnica dei cristiani armeni

Il 19 settembre 2023 le forze armate dell’Azerbaigian hanno lanciato un massiccio attacco nella regione del Nagorno-Karabakh, un’enclave nel territorio azero popolato da armeni, e in 24 ore hanno costretto alla resa il governo locale. Da quel momento, è iniziato l’esodo quasi totale della popolazione armena, oltre 100mila persone, una delle peggiori operazioni di pulizia etnica degli ultimi decenni. È molto grave che non ci siano state significative proteste a livello internazionale. Dietro Baku c’è la longa manus della Turchia che ha operato per la prima volta nello spazio post-sovietico e ha inflitto una pesante umiliazione alla Russia che avrebbe dovuto garantire la difesa degli interessi armeni.

La lunghissima coda dei cristiani che fuggono da una regione che hanno abitato per secoli si snoda lungo il Corridoio di Lachin, l’unico collegamento tra il Nagorno-Karabakh (che gli armeni chiamano Artsakh) e l’Armenia, bloccato dagli azeri per mesi per costringere alla fame e alla resa la popolazione cristiana. Una volta acquisito il controllo militare dell’area, il presidente azero Ilham Aliyev, ha abbandonato ogni orpello diplomatico e, con un preavviso di sole 24 ore, ha dichiarato che non si presenterà il 5 ottobre a Granada, in Spagna, dove si tiene un vertice informale dell’Unione Europea, per incontrare il premier armeno Nikol Pashinyan. Aliyev si sente in una botte di ferro perché ha il sostegno totale della Turchia, la seconda potenza militare della NATO dopo gli Stati Uniti, e quindi non teme né la Russia, una potenza indebolita e invischiata in una guerra dagli esiti incerti, né gli USA che intravedono la prospettiva di inserire stabilmente l’ex repubblica sovietica dell’Azerbaigian nel campo occidentale.

La Turchia si insedia nello spazio ex sovietico

L’occupazione del Nagorno-Karabakh è soltanto l’epilogo di un lungo scontro che, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, ha visto di fronte l’Azerbaigian, di religione islamica di etnia e di lingua turca, e l’Armenia, di etnia indo-europea e di religione cristiana. La prima guerra per il controllo dell’enclave ci fu tra il 1992 e il 1994, e vide la vittoria degli armeni che ottennero de facto la proclamazione di una repubblica indipendente, insieme al controllo di alcune aree del territorio azero. Dopo l’umiliazione militare, gli azeri si adoperarono per la modernizzazione del loro esercito. Nel 1992 l’Azerbaigian stringe le relazioni con la NATO diventando membro del North Atlantic Cooperation Council, partecipa alle operazioni NATO in Kosovo sotto il comando delle forze armate turche e inizia una collaborazioni di lungo termine con la Turchia a cui lo legano profonde affinità.

L’esercito azero, erede della mentalità sovietica, aveva bisogno non soltanto di moderni sistemi d’arma, ma anche di una preparazione alle metodologie belliche moderne, frutto dell’esperienza e della cultura occidentale. Per decenni, i futuri ufficiali azeri sono stati addestrati da istruttori turchi e hanno frequentato le accademie militari turche anche se la Russia è rimasto il principale fornitore di armamenti. La Turchia ha quindi plasmato un esercito moderno, aperto alle nuove tattiche militari che ha imparato a usare in modo aggressivo i droni di nuova generazione, forniti dall’industria militare di Ankara. A differenza dell’Armenia, povera di risorse, Baku può contare sulle ricche entrate dei suoi idrocarburi. Quando nel settembre del 2020 è scoppiata la Seconda guerra per il Nagorno-Karabakh, l’esercito azero, ben istruito e dotato di armamenti moderni, si è rivelato molto superiore a quello armeno a cui ha inflitto una sconfitta umiliante.

L’Armenia è uno stretto alleato della Russia ma la sua appartenenza all’OTSC non l’ha salvata dall’offensiva azera. Nella foto, la bandiera dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva.

Il merito della vittoria non spetta però a qualche brillante generale azero ma agli ufficiali turchi che hanno pianificato tutte le operazioni sul campo e le hanno dirette usando le informazioni dell’aviazione turca e di droni che si levavano in volo dal territorio turco. Gli ufficiali azeri hanno fatto un ottimo uso dei droni turchi e israeliani che hanno annientato le retrovie avversarie, mostrando che l’esercito armeno era totalmente impreparato a combattere una guerra di nuova concezione. Oltre all’arretratezza militare, gli armeni hanno compiuto una serie di gravi errori politici poiché la loro strategia di difesa presupponeva il sostegno militare e diplomatico russo che si è invece dimostrato inconsistente. Ancora più grave è il fatto che nonostante l’Armenia sia un membro della Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC) che riunisce sei Paesi ex sovietici (ma non l’Azerbaigian), la Russia non sia stata in grado di intervenire, dimostrando platealmente che la tanto sbandierata potenza militare russa non rappresenta più un fattore di dissuasione. Con la vittoria, l’Azerbaigian riottiene i sette distretti precedentemente in mano agli armeni, nonché una parte di ciò che era la Provincia autonoma del Nagorno-Karabakh assegnatole in era sovietica, territori perduti nella guerra precedente. Il vero vincitore di questa Seconda guerra, terminata il 9 novembre 2020 con una tregua, non è l’Azerbaigian ma la Turchia.

Per la prima volta, un attore esterno e membro della NATO ha condotto operazioni militari nello spazio post sovietico, mettendo in evidenza i limiti delle capacità russe di agire in un’area dove ha chiaramente perso gran parte della sua influenza. L’invasione dell’Ucraina, al di là dei proclami roboanti di Putin e di Medvedev, ha mostrato l’inadeguatezza degli armamenti e dell’addestramento dell’esercito russo, incapace di reagire agli sviluppi della modernizzazione. Nonostante la sicurezza del Nagorno-Karabakh fosse affidata a truppe di interposizione russe, queste non sono riuscite a muovere un dito di fronte alla determinazione azera (sostenuta da Ankara). Durante la trentennale collaborazione militare tra la Turchia e l’Azerbaigian, era diventato molto popolare lo slogan “due stati, un unico popolo” che sintetizza molto bene il tipo di disegno strategico che Erdoğan ha in mente per trasformare la Turchia in una potenza regionale che espande la sua influenza sul Caucaso meridionale.

Nuova strategia economica

A partire dal 2011, le forze armate turche hanno potenziato le proprie capacità per operazioni militari all’estero, mostrando un cambiamento profondo rispetto alla mentalità che si era sempre concentrata sulla politica interna. Per decenni l’esercito turco ha funzionato come un’istituzione pretoriana, che si considerava superiore alle istituzioni civili e intendeva condizionarne la politica. Ma il fallito colpo di stato del 2016, oltre a massicce epurazioni, ha portato a una drastica riduzione dell’indipendenza dei militari dal controllo civile, ha aumentato la professionalizzazione e ha riorientato la strategia verso sfide e minacce esterne. Grazie a una combinazione di produzione militare domestica e accesso a basi straniere, l’esercito di Ankara ha sviluppato capacità operative che le consentono di proiettare all’estero il proprio potere. Oltre alla presenza in Azerbaigian, la Turchia ha basi militari in Qatar, Siria, Iraq, Somalia, Libia. Tra i Paesi che hanno acquistato armamenti turchi, ma sono interessati a consolidare la collaborazione militare, ci sono Bangladesh, Malesia e Indonesia (tutti di religione islamica).

La mappa evidenzia in verde gli stati dove sono stanziati militari turchi. (Realizzata da Zenzyyx, Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International)

Ma questa grandeur neo-ottomana ha un costo notevole, che non può dipendere solo dai generosi finanziamenti del Quatar, tradizionale socio d’affari. Per Erdoğan è diventato fondamentale risanare la disastrata economia turca, ridurre l’inflazione galoppante e migliorare il quadro macroeconomico, in modo da attirare nuovamente investitori stranieri nel Paese, abbandonando una politica economica che aveva fatto esplodere l’inflazione. I primi segnali di cambiamento si sono avuti con la nomina di Mehmet Şimşek al vertice del ministero del Tesoro e delle Finanze, mentre Hafize Gaye Erkan, ex Goldman Sachs, è stata posta a capo della Banca centrale turca. Entrambi sono sostenitori dell’ortodossia economica e questo si è visto nell’impennata dei tassi di interesse che, da giugno 2023, con tre aumenti successivi, sono passati dall’8,5 per cento al 25 per cento di fine agosto. Anche se lo scopo degli aumenti è quello di frenare l’inflazione, i prezzi al consumo sono tornati a crescere dopo un breve calo nei primi sei mesi del 2023. Ad agosto l’inflazione ha raggiunto il 58,9 per cento, oltre dieci punti rispetto al mese precedente. A maggio, in pieno periodo elettorale, la Banca centrale aveva ipotizzato per fine anno un livello di inflazione del 22 per cento, un bersaglio che sarà clamorosamente mancato.

La grave situazione dell’economia ha spinto il presidente turco a modificare anche la sua politica estera e riallacciare i rapporti con Paesi con cui esistevano forti tensioni. Nel suo primo viaggio dopo la rielezione, oltre al fido alleato Qatar, Erdoğan si è recato in visita negli Emirati Arabi Uniti (che in Libia appoggiano gli oppositori del governo sostenuto da Ankara) e in Arabia Saudita, con cui c’è una rivalità latente per il controllo del mondo sunnita. Il viaggio è stato molto fruttuoso e dal Golfo il presidente è tornato con un accordo con Abu Dhabi che vale 50,7 miliardi di dollari, a cui si aggiunge l’impegno di un fondo emiratino a sostegno della ricostruzione post-terremoto con un’obbligazione del valore di 8,5 miliardi di dollari. Con l’Arabia Saudita sono invece stati firmati accordi per la vendita di droni turchi Bayraktar. Sono risultati importanti che allentano le tensioni economiche nel breve termine e aprono, in prospettiva, potenzialità di cooperazione economica in settori strategici come l’energia e la difesa.

Ankara ha ammorbidito anche la retorica degli scorsi anni verso l’Europa e ha rispolverato l’interesse turco a riaprire i negoziati per l’adesione alla UE, processo congelato da tempo. Come è stato precisato da Oliver Varhely, il commissario europeo all’Allargamento, la ripresa del processo negoziale dipende dall’adozione di riforme democratiche che non sono certamente all’ordine del giorno in un Paese che ha visto il deterioramento continuo dello stato di diritto, l’indebolimento progressivo degli equilibri tra i poteri, la dura repressione vero la stampa libera e l’incarcerazione degli oppositori politici. Non è quindi realistico ipotizzare una ripresa dei negoziati, ma Erdoğan vuole buoni rapporti con l’Europa non tanto perché speri in una futura adesione ma per il semplice fatto che la UE è il primo partner commerciale di Ankara, con un interscambio di 196,3 miliardi di dollari nel 2022. Dobbiamo però anche considerare che, dallo scorso anno, è la Russia il singolo Paese con cui la Turchia ha il maggior interscambio commerciale (68,2 miliardi di dollari). Questo conferma la sostanziale ambiguità di Ankara che continua a fare l’equilibrista tra Russia e Occidente.

Ricatti turchi e pericoli futuri

La vittoria azera in Nagorno-Karabakh rinforza la posizione internazionale della Turchia e le consente di accrescere il suo ruolo regionale, senza disdegnare di ricorrere a una strategia di ricatti per costringere i suoi “alleati” a piegarsi ai propri disegni. Erdoğan non ha esitato a ricorrere alla crudele arma del ricatto sui migranti per batter cassa con l’Europa, favorito in questo dalla miope acquiescenza della Germania. Ha posto il veto all’entrata della Svezia nella NATO per costringere gli Stati Uniti a rivedere il divieto sulla vendita di armamenti sofisticati, dopo che la Turchia aveva acquistato da Mosca il sistema missilistico S-400. Ha firmato un accordo con la Libia che, in aperta violazione delle leggi internazionali, ridisegna i confini marittimi nel Mediterraneo orientale, in un’area ricca di gas naturale e non disdegna di usare la forza militare a sostegno delle proprie rivendicazioni energetiche.

La Saipem12000 è una nave per prospezioni petrolifere del Gruppo ENI a cui la marina turca impedì di raggiungere la zona cipriota dove aveva il permesso di operare.

Per chi lo avesse dimenticato, ricordiamo che il 10 febbraio 2018 navi da guerra turche hanno intimato alla nave italiana Saipem 12000 di non raggiungere il punto da trivellare nel Block 3 della Zona economica esclusiva cipriota, nonostante l’Eni avesse un contratto regolare, stipulato col governo di Cipro. Sarebbe il caso di far presente al Primo ministro Meloni, che parla di trasformare l’Italia nell’hub energetico dell’Europa, che la Turchia ha esattamente lo stesso disegno e che, in caso di tensioni, è difficile immaginare che da Palazzo Chigi parta un ordine alla marina militare di fronteggiare le manovre aggressive della marina militare turca.

L’invasione dell’Ucraina da parte di Putin ha messo il “nemico-alleato” Erdoğan in una posizione di preminenza che gli consente grande libertà di manovra. La Turchia ha un’importanza strategica fondamentale per Washington sia come “bastione orientale” della NATO che per la sicurezza della regione del Mar Nero, la principale via per il commercio del grano russo e ucraino. Il Bosforo e i Dardanelli, sotto controllo turco, sono anche l’unica via d’accesso della marina militare russa al Mediterraneo. La sua indispensabilità ha permesso al presidente turco di condurre la propria politica estera in Siria servendosi di milizie jihadiste, combattute dagli Stati Uniti in nome della “guerra al terrorismo”. Violando la legge internazionale e senza incorrere in sanzioni, la Turchia ha invaso stabilmente una vasta area nella Siria settentrionale, scacciandone milizie curde che avevano avuto un ruolo fondamentale nella sconfitta dello Stato islamico. Ankara ha incarcerato tutti i principali giornalisti che si oppongono al governo, ma nessuno a Washington si azzarda a parlare di violazione dei diritti umani.

Ad agosto 2023 Fuat Oktay, presidente dalla commissione Affari Esteri del parlamento turco, ha incontrato ad Ankara una delegazione del Congresso americano per riaprire le discussioni sulla vendita di caccia F-16 e per l’ammodernamento del resto della flotta aerea. È in ballo un accordo del valore di 20 miliardi di dollari. Anche l’arrivo della portaerei statunitense Gerald Ford nella acque antistanti la città turca di Antalya per lo svolgimento di esercitazioni militari congiunte (ed è la prima volta dal 2016) indica una nuova fase nelle relazioni militari tra Washington e Ankara. Il 1 ottobre due terroristi suicidi hanno attaccato alcuni edifici governativi nella capitale turca, perdendo la vita e ferendo due poliziotti turchi. Le autorità hanno accusato dell’azione il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan, considerato un’organizzazione terroristica) e, in risposta, hanno ripetutamente bombardato obiettivi militari curdi in Siria. Uno degli attacchi turchi ha colpito la località di Hasakah, ad appena un chilometro da una base che ospita truppe americane, alleate alle milizie curde locali. Il 5 ottobre 2023 un caccia statunitense ha abbattuto un drone turco che operava nelle vicinanze degli insediamenti militari americani.

Anche se è la prima volta che Washington colpisce un velivolo di un membro della NATO,
l’alleanza con la Turchia ha un valore strategico così elevato che non dovrebbe venir messa in discussione dall’incidente. Il ministero della Difesa di Ankara ha negato che il drone appartenesse alla Turchia, ma non ha fornito informazioni sulla sua appartenenza. La reazione americana, la prima risposta militare alla politica avventuristica di Erdoğan, potrebbe essere un segnale a non tirar troppo la corda, pur nella consapevolezza delle tante carte che il presidente turco è in grado di giocare. Ma c’è un’altra questione che potrebbe avere implicazioni molto serie a livello internazionale. L’occupazione azera del Nagorno-Karabakh ha lasciato aperta la questione della Repubblica autonoma di Naxçıvan, un’exclave azera che non ha contiguità territoriale col territorio dell’Azerbaigian ed è collocata alla confluenza di Turchia e Iran. Baku ha minacciato di creare col sostegno turco un corridoio terrestre per collegarsi alla sua exclave, tagliando però in due l’Armenia che non accetterebbe mai una tale ipotesi. Anche l’Iran è fermamente contrario a questa possibilità che rafforzerebbe notevolmente la posizione turca nell’area.

Gli armeni, vittime del primo genocidio che aprì il “secolo breve”, guardano con sgomento al rafforzamento della Turchia, che continua a negare ogni responsabilità nel massacro, e temono l’inerzia e la pavidità delle cosiddette democrazie occidentali. Se è vero che gli interessi armeni sono stati traditi da Mosca, nonostante Putin si voglia presentare come il “difensore della cristianità”, né la debolissima Europa, né gli Stati Uniti sembrano intenzionati a battersi per l’Armenia. Il Congresso USA è sempre più recalcitrante nel concedere fondi ulteriori all’Ucraina e sarebbe molto difficile che accettasse il rischio di “morire per Erevan”. Il 3 ottobre l’Azerbaigian ha diffuso una nuova mappa del territorio del Nagorno-Karabakh appena conquistato e la cui capitale Stepanakert (Khankendi in azero) ha visto rinominare la proprie vie in azero. Una delle strade è stata dedicata a Enver Pasha, un militare e politico turco che fu uno dei principali ispiratori del genocidio degli armeni nel 1915. Non è un segnale tranquillizzante.

Galliano Maria Speri