Tutti gli analisti hanno notato che, nel suo recente viaggio d’affari in Medio Oriente, il piazzista Trump ha visitato l’Arabia Saudita (sempre al centro delle sue attenzioni personali), gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e ha persino incontrato il presidente pro tempore della Siria, l’islamista Ahmed al Sharaa, ma non Netanyahu. Questo ha scatenato una ridda di supposizioni su un possibile scollamento nelle solidissime relazioni tra Washington e Tel Aviv. È vero che, senza consultare Israele, Trump ha fatto un accordo con gli Houthi, ha negoziato con Hamas la liberazione di un ostaggio con la doppia cittadinanza statunitense e israeliana e continua le discussioni con Teheran per un accordo sul nucleare iraniano, che vede invece l’aperta opposizione di Netanyahu. Non è realistico, però, ipotizzare una rottura, nemmeno nel momento di massimo isolamento internazionale di Israele a causa dei massacri compiuti a Gaza e con le voci insistenti di un prossimo attacco dello Stato ebraico contro i siti nucleari di Teheran.
Trump è notoriamente un abile personaggio televisivo e un grande manipolatore dell’informazione ma non controlla tutti i media del mondo. Per questa ragione, un numero crescente di osservatori comincia a notare la forte discrepanza tra la narrativa dell’immobiliarista di New York, che occupa per ora la Casa Bianca, e i fatti reali. Prima della sua elezione Trump ha promesso che avrebbe posto fine alla guerra in Ucraina “in 24 ore”. La scorsa settimana, visto che non era cambiato assolutamente nulla, ha dichiarato che il problema non sarebbe stato risolto fino a quando lui e il presidente russo Putin non si fossero incontrati. Il 19 maggio 2025, la linea è cambiata nuovamente dopo la telefonata di due ore con il nuovo zar che è stato un totale buco nell’acqua. Trump ha dichiarato che, a questo punto, le condizioni di pace devono essere negoziate direttamente tra Ucraina e Russia, forse anche con la mediazione del papa. Parole, parole parole…ma niente fatti. Per ora l’inquilino della Casa Bianca si sta rivelando un chiacchierone inconcludente per quanto riguarda la soluzione dei conflitti.
Le due linee sull’Iran

Oltre ad aver ignorato platealmente Netanyahu, la visita in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar ha fruttato impegni commerciali per 2000 miliardi di dollari (secondo la Casa Bianca) e accordi di cooperazione che hanno rimesso le monarchie del Golfo al centro della politica internazionale. L’industria degli armamenti USA ha ovviamente fatto la parte del leone con le decine di contratti miliardari patrocinati da Trump (sugli affari personali della famiglia, che il presidente persegue con disprezzo delle leggi e del buon senso, invece non si sa molto). L’incontro con Mohammed bin Salman, il principe reggente dell’Arabia Saudita, è stato particolarmente fruttuoso perché ha portato alla firma di contratti per 142 miliardi di dollari in armamenti sofisticatissimi, senza nessuna richiesta di firmare gli Accordi di Abramo, o di prendere altri impegni verso Israele. Oltre all’ammontare spropositato della cifra, questa vendita rappresenta un cambiamento perché, finora, le relazioni USA-Israele si basavano sull’impegno americano a fornire a Tel Aviv gli armamenti più avanzati disponibili, in modo da mantenere la superiorità militare sui vicini. Ora l’impegno sembra cambiato.
Dopo aver dichiarato che Mohammed bin Salman «mi piace troppo», Trump ha affermato che gli Stati Uniti «non hanno un partner più forte» dell’Arabia Saudita, uno status che finora era stato riservato esclusivamente a Israele. Un altro segnale è stato l’accordo con i ribelli yemeniti Houthi che si sono impegnati a non colpire più il naviglio americano che transita nel Mar Rosso (ma senza prendere impegni verso Israele). Un segnale ancora più forte è stato inviato con gli accordi per la liberazione del cittadino israelo-americano Edan Alexander. Per arrivare al rilascio l’intelligence USA ha scavalcato Israele e ha preso i contatti direttamente con Hamas che lo deteneva come ostaggio a Gaza. Probabilmente, questi sgarbi derivano dalla frustrazione di Trump che da tempo chiede inutilmente a Netanyahu di chiudere la questione di Gaza. Nonostante l’assoluto bisogno del sostegno militare americano, il Primo ministro tira dritto per la sua strada perché, come ha scritto Jonathan Freeland sul Guardian del 16 maggio, «Netanyahu è a processo per corruzione e può essere sicuro di non finire in galera soltanto rimanendo aggrappato alla sua poltrona di Primo ministro. Per ottenere questo risultato deve consolidare la coalizione al potere, che include i due estremisti ultranazionalisti Itamar Ben-Gvir e Bezael Smotrich. Questi due uomini vogliono che la guerra continui e sognano una Gaza senza palestinesi per nuovi insediamenti di coloni ebrei. Preoccupato solo della sua sopravvivenza politica, Netanyahu si piega alle loro richieste e lascia che i fuochi della guerra continuino ad ardere, a prescindere dai costi umani».
Non dobbiamo dimenticare inoltre che, durante la campagna elettorale, Trump ha promesso di tornare a fare grande l’America concentrandosi sui propri interessi nazionali e sganciandosi dagli impegni sia militari che civili presi in precedenza. Al suo discorso di inaugurazione il 20 gennaio Trump ha affermato che la sua eredità sarà misurata sulla base «delle guerre a cui porremo fine e, forse ancora più importante, delle guerre che non inizieremo». Trump non è un pacifista ma un opportunista pragmatico che, per ora, preferisce negoziare con l’Iran per ottenere un accordo sul nucleare migliore di quello che lui stesso, nella sua amministrazione precedente, aveva stracciato nel 2018. La linea di Israele, come è ben noto, è quella dell’attacco preventivo, la cosiddetta “dottrina Begin”, dal nome dell’allora Primo ministro, inaugurata nel 1981 con la distruzione del reattore iracheno di Osirak. Altri attacchi preventivi si sono verificati contro la Siria nel 2007 e l’Iran nel 2024, unitamente a campagne di sabotaggio in Iran nel luglio del 2020, nell’aprile 2021 e nel maggio 2022. Tutte queste missioni militari si sono svolte con l’assenso e con il sostegno logistico e delle reti satellitari degli Stati Uniti.
L’attacco condotto da Israele contro l’Iran il 24 ottobre 2024 ha avuto un’importanza particolare

perché ha colpito in modo significativo le difese antiaeree iraniane, lasciando il Paese scoperto rispetto ai massicci bombardamenti dell’aviazione di Tel Aviv. Tutta la rete dei radar e il sistema antimissilistico S-300 di fabbricazione russa sono andati distrutti. Teheran ha chiesto a Mosca il più avanzato sistema S-400 e una maggiore collaborazione nella messa a punto di missili avanzati, capaci di forare la rete di protezione israeliana. Ma questo è un processo complesso e molto lungo. Se consideriamo che le forze degli Hezbollah libanesi, i cui missili potevano raggiungere Israele in pochi minuiti, sono state distrutte all’80 per cento e anche la Sira, ex alleato di Teheran, si trova in una fase di estrema debolezza, viene a delinearsi una vera e propria “finestra di opportunità” per distruggere gli impianti nucleari iraniani.
Netanyahu si prepara ad attaccare i siti nucleari iraniani?
Il sito americano War on the Rocks del 4 marzo 2025 riporta un sondaggio israeliano secondo il quale il 68 per cento degli israeliani è a favore di un attacco contro l’Iran, dopo i successi conseguiti nella campagna contro gli Hezbollah. Il dato però si riduce al 37 per cento nel caso in cui l’operazione venisse condotta senza il sostegno USA. I siti nucleari iraniani sono molteplici e collocati nelle viscere di catene montuose per cui, per avere la certezza di distruggere l’obiettivo, Netanyahu ha bisogno delle mastodontiche bombe americane “bunker buster” che hanno la capacità di penetrare molto in profondità nel terreno. Servirebbero inoltre aerei cisterna per rifornire in volo i caccia con la stella di Davide ma, in caso di dissenso incolmabile, Tel Aviv potrebbe anche agire da solo come è avvenuto nel già ricordato bombardamento del sito nucleare iracheno di Osirak nel 1981 o al reattore nucleare siriano di al-Kibar nel 2007. Poiché le campagne militari di Netanyahu sono plasmate da bieche mire personali, non da considerazioni strategiche o di interesse nazionale, non è da escludere che il primo ministro israeliano tenti una mossa a sorpresa anche senza il consenso degli Stati Uniti.
Il 20 maggio 2025 la rete televisiva statunitense CNN ha diffuso un rapporto dove riferisce le dichiarazioni di “funzionari americani che hanno familiarità con l’argomento” secondo i quali Tel Aviv sta facendo preparativi per attaccare i siti nucleari iraniani. Secondo gli stessi funzionari, questa mossa sarebbe una smaccata rottura con il presidente Trump, impegnato, anche se non con troppa convinzione, in colloqui diplomatici con l’Iran con la mediazione dell’Oman. Le stesse fonti ritengono che gli israeliani potrebbero lanciare un attacco da soli nel caso in cui venisse firmato un “cattivo accordo” con Teheran aggiungendo che «gli israeliani non sono stati timidi nel segnalarci questo aspetto, sia a livello pubblico che privato». Per ora, i colloqui sul nucleare iraniano sono a un punto morto a causa della richiesta americana di vietare ogni arricchimento dell’uranio, un processo che consente di mettere a punto un’arma nucleare ma serve anche a ottenere il combustibile necessario a un impianto civile. La carta dell’ONU consente l’uso pacifico dell’energia nucleare per cui non si capisce su quale base gli USA possano proibire all’Iran di costruire impianti nucleari per produrre energia, una volta che ci sia l’impegno a non realizzare una bomba.
Un ulteriore elemento di complicazione è rappresentato dal fatto che Teheran è molto vicino a un arricchimento dell’uranio che le consentirebbe di mettere a punto un ordigno nucleare. Secondo un rapporto del 25 febbraio 2025 dell’AIEA, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, l’Iran avrebbe presto a disposizione 250 chilogrammi di uranio arricchito al 60 per cento, poco meno di quanto è necessario per realizzare un’arma. Avendo prodotto 90 chilogrammi soltanto a partire dal dicembre del 2024, secondo l’AIEA la realizzazione di un’arma nucleare dista pochi mesi, non anni. Durante la visita di Netanyahu alla Casa Bianca del 4 febbraio scorso, Trump ha sminuito l’urgenza di colpire immediatamente gli iraniani dicendo che «ci sono due modi di fermarli: con le bombe oppure con un documento firmato. Io preferisco di gran lunga un accordo che non gli faccia male». Ma come abbiamo imparato a nostre spese, il presidente americano è molto umorale e altamente imprevedibile. Se un avventuriero spietato come Netanyahu decidesse un attacco unilaterale sarebbe molto difficile per Trump non intervenire, soprattutto in caso di “incidenti” che minaccino la sicurezza dell’alleato.
I precedenti
La lobby israeliana negli USA è potentissima e coincide sostanzialmente con l’establishment della destra. Non è certo casuale che la Heritage Foundation, un centro studi fortemente conservatore e favorevole a una politica estera molto aggressiva, in un suo rapporto del 12 marzo 2025 chieda agli Stati Uniti di «riorientare la sua relazione con Israele a una partnership strategica paritaria per i prossimi vent’anni». Negli ultimi decenni è stato sempre Israele che ha imposto agli Stati Uniti la propria linea e non viceversa. Ma non è sempre andata così. Nel 1956, a causa della politica miope del segretario di Stato John Foster Dulles, il presidente egiziano Gamal Abd al-Nasser nazionalizzò il canale di Suez. In risposta a questa mossa, Gran Bretagna, Francia e Israele invasero l’Egitto e occuparono il canale di Suez. Per tutta risposta, il presidente Eisenhower fece approvare una risoluzione all’ONU di condanna dell’invasione e costrinse la Gran Bretagna, seguita da Francia e Israele, a ritirarsi con la coda tra le gambe.

Un altro scontro durissimo tra Washington e Tel Aviv ci fu nel 1963 quando il presidente John F. Kennedy si rese conto che gli israeliani avevano intenzione di realizzare una bomba atomica, in violazione delle convenzioni internazionali, servendosi dell’impianto di Dimona, nel deserto del Negev. In una lettera del 15 giugno 1963 diretta al primo ministro David Ben-Gurion Kennedy lanciava un vero e proprio ultimatum richiedendo ispezioni semestrali a Dimona per controllare che Israele non mettesse a punto una bomba nucleare. In caso contrario «l’impegno e il sostegno americano verso Israele sarebbero seriamente messi a repentaglio». Kennedy riaffermò con durezza che avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per impedire a Israele di costruirsi la bomba atomica ma, purtroppo, le cose presero una piega diversa, gli israeliani misero a punto la bomba nucleare e il presidente andò incontro al destino su un’auto scoperta a Dallas il 23 novembre 1963. Trump è una persona ignorante che possiede un vocabolario di trecento parole e, non avendo mai letto un libro, non è detto che conosca questa storia. Ma, anche se la conoscesse, probabilmente ci penserebbe due volte prima di scontrarsi frontalmente con Israele, come aveva fatto Eisenhower nel 1956. Sono entrambi due presidenti repubblicani ma la loro qualità umana è abissalmente diversa.
Galliano Maria Speri