Nima Baheli è un esperto analista geopolitico di origine iraniana che segue con passione e competenza l’area MENA (Middle East and North Africa). Il colloquio da cui è stata tratta l’intervista si è svolto a Roma.
Dott. Baheli sono ripresi i colloqui indiretti tra l’Iran e l’amministrazione USA che, con la mediazione dell’Oman, hanno visto vari incontri tra Muscat e Roma per riprendere i fili di un accordo sul nucleare, rotto unilateralmente proprio da Trump nel 2018. Ritiene che l’inaspettata apertura da parte del presidente americano sia indicativa di una seria intenzione di negoziare?
Ironicamente, ci sono due debolezze parallele che potrebbero facilitare il negoziato. Durante la campagna elettorale Trump ha fatto promesse roboanti sui problemi del mondo che sarebbero stati risolti in poco tempo, ma dall’inizio del suo mandato le cose non sono andate nella direzione auspicata. La guerra in Ucraina continua, la situazione a Gaza è sempre più drammatica e, a questi due fattori, dobbiamo anche aggiungere l’instabilità con cui i mercati mondiali hanno risposto ai dazi imposti dagli USA il 2 aprile. Il presidente americano ha assolutamente bisogno di una vittoria da poter rivendicare e concentrare le sue risorse strategiche per proiettarsi verso l’Asia, l’area da cui proviene la minaccia cinese. Anche l’Iran ha subìto una serie di rovesci di carattere politico-strategico, ha un’economia fortemente indebolita dalle sanzioni internazionali e ha un bisogno urgente di misure che consentano di migliorare le condizioni di vita della popolazione. A prescindere dalle posizioni ideologiche precedenti, queste due debolezze concomitanti favoriscono la possibilità dei negoziati perché nascono da esigenze reali di entrambi i Paesi.

Anche se è vero che Trump si tiene aperta sia la strada del negoziato sia quella dell’attacco militare, Steve Witkoff, l’inviato del presidente nelle varie aree di crisi, si appresta a riproporre una riedizione del JCPOA (il Joint Comprehensive Plan of Action, l’accordo sul nucleare iraniano raggiunto a Vienna il 15 luglio 2015 dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU più Germania e UE, NdR). Ma a differenza di quanto avvenne nel 2015, stavolta l’Iran chiede che, in caso di accordo, questo venga ratificato dal Congresso USA, in modo da impedire che il presidente possa deciderne la sospensione unilaterale come si verificò nel 2018. Oltre all’inizio dei negoziati con Washington, Teheran sta portando avanti una strategia diplomatica sul nucleare anche con Cina e Russia, per dar vita a un fronte comune verso gli Stati Uniti. Il 24 aprile rappresentati di Iran, Cina e Russia hanno incontrato congiuntamente l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) per discutere il programma nucleare iraniano. L’incontro è avvenuto dopo una visita a Pechino del ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi.
La situazione strategica in Medio Oriente è completamente cambiata dopo le pesanti sconfitte militari di Hamas a Gaza, degli Hezbollah in Libano e il crollo del regime di al-Assad in Siria. Pensa che la strategia di quello che era definito “Asse della resistenza” sia tramontata?
Quella strategia fu messa a punto dal generale Qasem Soleimani che, oltre ad avere l’obiettivo di esportare all’estero l’ideologia khomeinista, mirava a costruire un doppio cerchio di difesa dell’Iran che includeva Siria, Iraq, Libano, Yemen e i Territori occupati da Israele. Il piano di Soleimani era però criticato da esponenti moderati del regime come Mohammed Zaarif, ministro degli Esteri dal 2013 al 2021 e, successivamente, vicepresidente per gli Affari strategici fino alle sue dimissioni nel marzo del 2025. Suleimani, che possedeva una mente strategica, è stato assassinato nel gennaio 2020 e le forze che aveva contribuito a potenziare come Hamas e Hezebollah sono state pesantemente ridimensionate. Ma la prima linea di difesa resiste ancora in Iraq e anche lo Yemen, nonostante la forte concentrazione di forze navali nell’area, rimane una spina nel fianco degli USA per il controllo che esercita sullo stretto di Bāb el-Mandeb. È un’ironia della storia, ma proprio il fatto che l’Asse della resistenza sia molto più debole favorisce le trattative perché nel 2018 tra le varie richieste di Trump c’era l’abbandono dei proxies iraniani nelle varie aree mentre oggi questa necessità non si pone e, quindi, c’è un problema in meno da risolvere.
Il New York Times ha riferito che, per ora, Trump ha posto il veto sui piani di attacco del primo ministro israeliano Netanyahu contro le strutture nucleari iraniane. Ma, considerando il forte indebolimento degli alleati di Teheran, è lecito chiedersi se l’Iran possieda ancora una forza militare capace di difendere il proprio territorio da minacce esterne.
Su questa questione è necessario chiarire un aspetto molto importante. Il 14 aprile del 2024, in risposta a un attacco missilistico israeliano contro il consolato iraniano a Damasco, Teheran aveva lanciato circa 300 missili e droni, intercettati per la maggior parte dai vari sistemi difensivi di Tel Aviv. Nonostante le vaste dimensioni, la maggior parte degli analisti aveva ritenuto che la risposta iraniana era stata soprattutto dimostrativa, ampiamente preannunciata e senza obiettivi civili nel mirino. Quanto accaduto il 1 ottobre 2024, invece, è totalmente diverso perché in questo caso si è trattato del più grande attacco missilistico contro Israele dal 1979. L’azione è stata considerata una ritorsione per l’uccisione del leader di Hamas Ismael Aniyeh e per quella del Segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah e ha visto l’impiego di 180 missili balistici, tra cui le nuove varianti degli Shahab-3. Secondo fonti ufficiali del governo di Teheran nell’attacco è stato usato anche un nuovo missile ipersonico chiamato Fattah-1, capace di viaggiare a una velocità cinque volte superiore a quella del suono.
A differenza dei droni o dei missili tradizionali, i missili balistici e ipersonici sono molto più difficili da intercettare e possono bucare con facilità le strutture difensive israeliane come il sistema chiamato Iron Dome e non è certo casuale che gli Stati Uniti si siano affrettati a far arrivare in Israele i loro sistemi antimissilistici THAAD. Le foto satellitari mostrano missili iraniani che hanno raggiunto la base aerea di Nevatim, causando danni alle strutture e agli hangar che ospitano i caccia stealth F-35I, anche se non si è riusciti a dimostrare che i caccia siano stati effettivamente colpiti. Anche la base aerea di Hatzerim nel deserto del Negev e quella di Tel Nof, 20 chilometri a sud di Tel Aviv, sono state colpite. L’attacco di ottobre è stato concepito in due ondate ma, sulla base del numero dei lanciatori disposto sul territorio, si può supporre che l’Iran sia in grado di lanciare un attacco in 8-10 ondate. Se l’offensiva viene condotta con missili balistici e supersonici è chiaro che i danni inflitti a Israele salirebbero di conseguenza.

Le sanzioni imposte a Teheran hanno causato gravi difficoltà all’economia e creato molto malcontento tra la popolazione. Qual è la strategia del governo per superare questo momento difficile?
Non dobbiamo guardare all’Iran come a un blocco monolitico ma come un insieme dinamico di forze che si contrappongono, si alleano, si separano. Per semplificare, e con le dovute differenze, potremmo dire che le forze al governo in Iran sono come una grossa Democrazia Cristiana che si spartisce il potere con la finalità di conservare la propria centralità. Dopo le recenti elezioni presidenziali si è rafforzato il gruppo legato a Masoud Pezeskian, eletto presidente a luglio dello scorso anno, un personaggio che viene considerato un riformista e che quindi punta al negoziato piuttosto che sullo scontro con l’Occidente. Al momento, la guida suprema Alì Kamenei è contraria all’opzione militare verso cui spingono invece le giovani generazioni dei pasdaran. La situazione economica è drammatica a causa della forte disoccupazione, dell’inflazione crescente, della svalutazione della moneta, della carenza di investimenti ma, soprattutto, dell’alto livello di corruzione che continua a imperversare. Questo causa un dissesto ecologico e ambientale a cui non si riesce a far fronte. L’emergenza idrica è una delle principali preoccupazioni del governo perché finora c’è stata una pessima gestione politica della siccità e delle alluvioni. La crisi attuale è esplosa anche per responsabilità interne visto che il numero abnorme di dighe costruite ha causato una drastica scarsità d’acqua. Le tante dighe inutili sono state realizzate per favorire la filiera controllata dai pasdaran che hanno lucrato sulle costruzioni per finanziare il proprio apparato.
Il caso di Isfahan, l’antica capitale imperiale, è balzato agli onori della cronaca quando il suo fiume storico Zāyanderūd si è disseccato a causa delle dighe a monte dell’agglomerato urbano. La siccità ha avuto anche un impatto sulla produzione industriale ed energetica perché le centrali, soprattutto quelle nucleari, hanno bisogno di acqua per il raffreddamento e questo ha causato una serie di interruzioni dell’elettricità nello scorso inverno. È stato calcolato che la carenza idrica sia costata all’economia una cifra che si aggira sui 7/8 miliardi di dollari all’anno. Nonostante questi problemi, rispetto a due o tre anni fa, le proteste sono meno aperte e visibili, quasi sottotraccia e sono probabilmente influenzate dal fatto che l’apertura dei negoziati e la possibile eliminazione delle sanzioni schiude prospettive migliori per il futuro.
Nel luglio del 2023, grazie alla mediazione di Pechino, Iran e Arabia Saudita riallacciarono le loro relazioni, chiudendo una delle fratture più profonde negli affari politici mediorientali. Come prosegue il discorso nel nuovo contesto internazionale?
Nel 2015, quando venne firmato il primo accordo sul nucleare, Arabia Saudita e Paesi del Golfo erano contrari ma oggi il loro atteggiamento si è completamente modificato perché la situazione strategica è totalmente diversa. Mohammed bin Salman, il principe ereditario saudita, ha messo a punto un ambizioso piano di sviluppo denominato Saudi Vision 2030 che potrà essere realizzato soltanto nella stabilità e questo ha rappresentato un forte incentivo per rapporti non conflittuali con l’Iran. Il 17 aprile 2025, prima di ulteriori incontri tra funzionari USA e iraniani, il principe Khalid bin Salman, ministro della Difesa dell’Arabia Saudita, ha visitato Teheran proprio per diminuire le tensioni dopo le minacciose parole di Trump che aveva evocato bombardamenti sull’Iran nel caso non si fossero raggiunti accordi sul nucleare. La Cina, con cui l’Iran intrattiene da decenni un’intensa relazione economica, è molto interessata all’accordo perché vede nell’eliminazione delle sanzioni un’opportunità per ulteriori investimenti in Iran.
Galliano Maria Speri