Sabato 21 giugno 2025, dopo ripetuti attacchi israeliani, sette bombardieri B-2 si sono levati dalla base aerea di Whiteman nel Missouri per colpire, con le potentissime bombe a penetrazione GBU-57, tre siti nucleari in Iran, distanti 11.402 chilometri. La missione, di grande complessità militare, aveva l’obiettivo di impedire agli ayatollah di realizzare una bomba atomica ma anche di lanciare un chiaro messaggio a Mosca e Pechino. Non esistono dati affidabili per affermare che i siti iraniani siano stati totalmente distrutti e il programma nucleare di Teheran sia stato rinviato sine die. Ma se lo scopo era di impedire la presenza di ordigni atomici in Medio Oriente, l’obiettivo è fallito perché da più di cinquant’anni Israele possiede armi nucleari che ha minacciato di usare in più di un’occasione. La storia di come, in barba alle leggi internazionali, lo Stato ebraico si sia fatta la sua bomba è poco conosciuta. Vediamone i dettagli.
L’attacco israeliano ai siti nucleari iraniani è stato molto complesso e ha visto l’utilizzo dell’aviazione (con i caccia F-35 che hanno subito modifiche ai serbatoi che consentono di raggiungere l’Iran senza bisogno di rifornimenti in volo), della marina, che ha usato i propri sottomarini per lanciare decine di missili, unitamente a operazioni sul terreno da parte di agenti infiltrati da anni che si sono serviti di droni introdotti clandestinamente. Il premier Netanyahu ha dichiarato che tale massiccio dispiegamento era necessario perché gli ayatollah stavano per mettere a punto una bomba con la quale avrebbero potuto distruggere Israele. In un suo discorso del 29 giugno il presidente Trump ha affermato addirittura che l’Iran era proprio sul punto di fabbricare un ordigno. Queste affermazioni sono grossolanamente false perché, come ha confermato l’AIEA (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica), Teheran non ha una bomba ma circa 408 chili di uranio arricchito al 60 per cento, poco sotto il livello necessario per fabbricare un ordigno. Questo significa che, se venisse presa la decisione politica, l’Iran potrebbe tentare di fabbricare una bomba, in un periodo di tempo non meglio determinato, anche perché i principali scienziati che lavoravano al progetto sono stati assassinati. Il pericolo quindi non è imminente.
L’attacco, perché ora

Lo scopo principale dell’attacco all’Iran era quello di coinvolgere gli Stati Uniti nella guerra (obiettivo raggiunto con facilità), ma anche di ricompattare il Paese, dove ci sono le proteste dei parenti degli ostaggi ancora detenuti e quelle della debole opposizione a un premier che, ricordiamolo, è sotto processo per corruzione. Ora, come generale vittorioso di un esercito che ha conseguito brillanti successi, Netanyahu è diventato molto più forte e nessun giudice potrà muovergli accuse, col rischio di essere additato come “nemico del popolo”. Il terzo obiettivo era quello di bloccare le proteste internazionali, dopo la brutalità dei massacri insensati dell’esercito israeliano a Gaza, a cui si è aggiunta l’uccisione di centinaia di persone in fila per il cibo. Questi crimini hanno destato profondo orrore nel mondo e sollevato richieste di interventi su Israele perché fermi le uccisioni. Nel tentativo di suscitare simpatia verso lo Stato ebraico, il primo ministro ha mentito spudoratamente descrivendo il proprio Paese minacciato di distruzione da parte di una teocrazia oscurantista e fanatica. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha addirittura dichiarato che «Israele ha fatto il lavoro sporco per noi», appoggiando in pieno la linea bellicista di Netanyahu.
A dire il vero, non esistono prove che Teheran abbia un progetto operativo per mettere a punto un vero ordigno nucleare. Si era espressa così la coordinatrice dell’intelligence nazionale USA Tulsi Gabbard, durante un’udienza al Congresso nel marzo scorso. Trump l’ha redarguita pesantemente e lei si è affrettata a cambiare linea, affermando che le sue parole erano state travisate dai media. Il bombardamento dei siti iraniani rappresenta un attacco di potenze nucleari (Israele e Stati Uniti) che colpiscono uno stato non nucleare, una grave violazione del diritto internazionale (se ancora ne esiste uno). La riluttanza iraniana nel mettere a punto una bomba nucleare, ma continuando a sventolare la minaccia, ha una forte rassomiglianza con la gestione delle «armi di distruzione di massa» del dittatore iracheno Saddam Hussein. Già dopo la Prima guerra del Golfo, negli anni ’90 del secolo scorso, il Rais si era sbarazzato dei suoi programmi per armi nucleari, chimiche e biologiche, ma si era ben guardato dall’informare l’ONU o gli Stati Uniti. La lezione delle guerre irachene, scatenate per distruggere armi di distruzione di massa inesistenti, seguite dal tragico fallimento della “democratizzazione” dell’Afghanistan, sembrano già dimenticate e il criminale di guerra Netanyahu ha la faccia tosta di parlare di regime change e rivolgersi al popolo iraniano che sta bombardando invitandolo a insorgere contro l’oppressore.
Nel 2003 il leader supremo Ali Kamenei emise un editto religioso con cui vietava la produzione e l’uso di armi nucleari. Quella fatwa non è mai stata revocata e la bomba è stata usata soltanto come minaccia, anche se la quantità di uranio arricchito ormai in possesso del regime, ne consentirebbe la fabbricazione. La ragione di questa scelta non è stata teologica, ma è dovuta al fatto che se l’Iran riuscisse a colpire Israele con un ordigno nucleare, anche se i suoi missili si sono dimostrati tutt’altro che accurati, Israele, che può invece contare su missili di altissima precisione e caccia che hanno il dominio dei cieli iraniani, potrebbe replicare con centinaia di testate che distruggerebbero l’Iran con un vero olocausto nucleare. Alla luce di queste considerazioni, quando il ministro della Difesa Crosetto dice al Corriere della Sera del 15 giugno scorso che «appena l’Iran avrà l’atomica la userà» fa un’affermazione ideologica e non fattuale che rafforza il clima bellico plasmato dal premier israeliano. Quali sono i veri rapporti di forza militari tra Tel Aviv e Teheran è mostrato dai bombardamenti di precisione, dall’eliminazione dei capi dell’esercito e dei pasdaran, dagli omicidi degli scienziati nucleari, dall’uso micidiale di droni usati da agenti infiltrati per distruggere le difese antiaeree iraniane.
Dopo il massacro del 7 ottobre 2023, che l’intelligence israeliana descrive come ordinato da Teheran (ma su questo è lecito avere dei dubbi), lo Stato ebraico ha conseguito una schiacciante vittoria militare. Ha decimato Hamas, ha drasticamente ridimensionato gli Hezbollah libanesi, occupato una fascia di sicurezza nel Paese dei cedri, distrutto quasi tutto l’armamento delle forze militari siriane e colpito le milizie sciite irachene. Negli scontri diretti con l’Iran ha mostrato una superiorità schiacciante, capace di infliggere perdite gravissime al nemico senza subirne e di muoversi in territorio ostile con una presenza capillare. Il 16 giugno 2025, il giornalista Eric Salerno, ex corrispondente del Messaggero da Gerusalemme e grande esperto del Mossad, il servizio segreto esterno di Israele, è intervenuto a Radio 3 Mondo. Alla domanda su come sia possibile che il Mossad faccia operazioni sofisticatissime all’estero e poi non si sia accorto dei preparativi per il 7 ottobre, ha risposto che esistono due ipotesi: la prima è che i servizi segreti sapevano e hanno lasciato correre per sfruttare la possibilità di uccidere tutti i palestinesi e colpire l’Iran e i suoi proxies, mentre la seconda è che il senso di superiorità era così forte che l’intelligence ha ritenuto Hamas incapace di operazioni sofisticate e si è fatta sorprendere. Alla luce di quello che è avvenuto a Gaza, in Libano e, successivamente, in Iran ci sono forti elementi che farebbero propendere per la prima ipotesi.
Il piano sionista per la bomba
Immediatamente dopo la nascita dello Stato di Israele, venne avviato un programma per lo sviluppo di armi nucleari, patrocinato dall’allora primo ministro David Ben Gurion. Egli riteneva infatti l’arma nucleare indispensabile per garantire la sopravvivenza dello Stato ebraico, circondato da potenze arabe ostili. Ben Gurion ripeteva che «mai più il popolo ebraico si farà condurre al macello come un gregge di agnelli». Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, l’avvio del programma fu favorito dalla Francia, non dagli Stati Uniti che, fino alla presidenza Kennedy, si erano tenacemente opposti alla proliferazione nucleare. La Francia aveva costruito il suo primo reattore nel 1948, ma la decisione di realizzare la bomba era sta presa nel 1954 da Pierre Mendès-France, l’allora primo ministro della IV Repubblica. Di ritorno da un viaggio a Washington, il premier francese aveva confidato a un collaboratore che l’incontro era stato «esattamente come una riunione di gangster, con ognuno che mette la pistola sul tavolo. Se non hai una pistola non sei nessuno. Ecco perché abbiamo bisogno di un programma nucleare».

Le ragioni che spinsero la Francia a collaborare con Israele furono molteplici. Da un lato, c’erano le simpatie verso lo Stato ebraico da parte degli scienziati nucleari francesi di origine ebraica, molto numerosi all’interno della Commissione francese per l’energia nucleare. Un ruolo fu giocato anche dal senso di colpa dopo che la Francia aveva abbandonato Israele all’indomani della fallimentare operazione neocoloniale franco-britannica per occupare il canale di Suez, nazionalizzato dal presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser. In quell’occasione il presidente USA Eisenhower era intervenuto e aveva posto fine all’intervento militare franco-britannico-israeliano, facendo del 1956 uno spartiacque tra un mondo pre e post coloniale e mettendo bene in chiaro che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato concorrenti nella loro politica globale. Nell’atteggiamento francese c’era anche un aspetto commerciale perché fornendo know-how nella costruzione di impianti nucleari, non solo a Israele ma anche ad altri Paesi che volevano riarmarsi, pensava di crearsi una rete di influenza internazionale.
Il luogo scelto fu Dimona, un’area desolata nel deserto del Negev, dove venne costruito un impianto sperimentale che, ufficialmente, doveva fare ricerche sull’uso pacifico dell’energia nucleare ma che in realtà aveva impianti per separare il plutonio dal combustibile nucleare esausto, in modo da accumulare materiale per un ordigno. Questo è esattamente quello che hanno fatto gli iraniani che, però, non sono mai arrivati alla fabbricazione di una bomba. Alla fine degli anni ’50 del secolo scorso il piccolo villaggio di Dimona era diventato una cittadina cosmopolita, grazie all’arrivo di 2500 cittadini francesi che vi lavoravano a tempo pieno. In superficie c’erano le modeste strutture per la ricerca (in modo da ingannare i satelliti e gli aerei spia americani), mentre nel sottosuolo erano stati costruiti gli impianti per l’arricchimento dell’uranio. A Dimona funzionavano licei francesi, le strade erano piene di Renault e nei negozi si sentiva parlare francese. I lavoratori francesi, però, non potevano scrivere direttamente a parenti e amici ma erano costretti a indirizzare la corrispondenza a una finta casella postale in America Latina.
Sia i francesi che gli israeliani non fornivano informazioni agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, a cui era stato detto che il grande complesso nel deserto era un impianto per processare il manganese. Gli americani si erano però insospettiti e avevano fatto ripetutamente sorvolare Dimona da aerei spia U2 per capire cosa stesse succedendo. A quel punto, Tel Aviv ammise che c’era un reattore ma che serviva soltanto a produrre energia. Venne dichiarato che il combustibile esaurito veniva spedito in Francia per essere processato, accludendo addirittura un filmato del supposto caricamento del combustibile esausto su un cargo francese. Per tutti gli anni ’60 Israele negò energicamente che nel sottosuolo di Dimona si stava accumulando plutonio per costruire una bomba nucleare. Poiché Israele rifiutava le visite ispettive dell’AIEA, nata nel luglio del 1957, all’inizio della sua presidenza Kennedy chiese che almeno venissero accettati ispettori americani. Agli americani non venne però concesso di portare i propri strumenti e un ispettore notò la costante presenza di mura appena tirate su. Venne fuori che prima di ogni ispezione gli israeliani costruivano finte mura per nascondere alla vista gli ascensori che scendevano ai sei piani sotterranei. Nell’estate del 1963 crebbero le tensioni con Kennedy ma tutto finì il 23 novembre 1963, quando il presidente venne assassinato a Dallas. Da quel momento in poi, Washington cambiò atteggiamento verso Tel Aviv.
Le operazioni clandestine
Nel 1959, mostrando scarsa sensibilità per il problema della proliferazione nucleare, la Norvegia aveva venduto a Israele 20 tonnellate di acqua pesante, un’acqua con una maggiore presenza di deuterio necessaria per controllare le reazioni nucleari. Nel 1967, quando terminò il sostegno francese alla costruzione della bomba, il Mossad mise a punto varie operazioni segrete per procurarsi l’ossido di uranio (chiamato in gergo yellowcake) necessario per fabbricare gli ordigni. Una delle imprese più note, condotta nel novembre del 1968, venne chiamata Operazione Plumbat, dal nome di un innocuo componete di piombo in fusti che contenevano invece yellowcake. Il Mossad aveva creato una finta compagnia navale entrata in possesso di un cargo, rinominato Scheersberg A, su cui vennero caricate 200 tonnellate di yellowcake, acquistate precedentemente dalla compagnia mineraria belga Union Minière, in quella che è oggi la Repubblica democratica del Congo. Una volta giunto a Rotterdam, il capitano del cargo licenziò l’equipaggio, sostituito da marinai scelti dal Mossad e fece rotta verso Genova. Da qui, si diresse verso Cipro. In prossimità delle coste israeliane, la Scheersberg A venne affiancata da navi militari israeliane che trasbordarono il materiale nucleare. All’arrivo in Turchia il cargo era vuoto e tutto l’uranio era finito a Dimona.
Nel 1976, durante un incontro riservato con una decina di funzionari della Nuclear Regulatory Commission (l’agenzia indipendente USA che ha il compito di proteggere la sicurezza e la salute pubblica per tutte le questioni che riguardano il nucleare), il vicedirettore della CIA Carl Duckett aveva informato i presenti che parte del plutonio per le bombe israeliane era stato rubato in una ditta americana, la Nuclear Materials and Equipment Corporation (Numec), con sede in Pennsylvania. Le indagini dimostrarono che il sito era stato visitato da alti ufficiali del Mossad, incluso Rafi Eitan (messo poi a capo della Lekem, chiamata anche Lakam, una finta agenzia che aveva il compito di procurarsi informazioni scientifiche e materiali riservati), che si era presentato alla Numec come “chimico”. I documenti raccolti dimostravano la sottrazione di ingenti quantità di plutonio, ma né la CIA, né il governo statunitense presero misure. Era il segnale che Israele aveva iniziato a camminare sulle proprie gambe e che cominciava a imporre la propria volontà al governo USA.

Uno scandalo simile era esploso in California nel 1985, quando un ingegnere aerospaziale statunitense, Richard Kelly Smith, presidente di una ditta chiamata MILCO, era stato processato per aver venduto a Israele 800 krytron (tubi riempiti di gas che vengono usati come interruttori nell’industria nucleare) senza la prescritta autorizzazione del dipartimento di Stato. Kelly Smith e la moglie erano fuggiti prima del processo (rischiavano fino a 105 anni di carcere) ma nel 2001 furono arrestati a Malaga, in Spagna, ed estradati negli Stai Uniti. Il caso peggiore sarebbe però scoppiato nel 1986 quando Jonathan Pollard, un analista di origine ebraica presso il Naval Intelligence Command USA, passò informazioni riservatissime ad agenti israeliani del Lekem, compromettendo l’intero sistema di sicurezza degli Stati Uniti. Pollard venne arrestato e condannato all’ergastolo per spionaggio. La spia, che dal 1995 ha la cittadinanza israeliana, ha scontato la pena fino al novembre del 2015, quando ha ottenuto la libertà condizionale. Scadute le disposizioni restrittive, Pollard e la moglie sono partiti per Israele nel dicembre 2020 e, all’arrivo, sono stati accolti personalmente da Netanyahu che ha parlato dell’analista-spia come di un eroe.
Quante testate possiede Israele?
L’arsenale nucleare israeliano non è più fonte di speculazioni da quando, nel 1986, Mordechai Vanunu, un ebreo sefardita nato in Marocco e impiegato per molti anni a Dimona, consegnò al britannico Sunday Times una vasta documentazione che forniva molti dettagli sul programma nucleare di Israele. Il Mossad preparò subito un piano per rapirlo ma, per non compromettere i rapporti con la Gran Bretagna, decise di attirare Vanunu a Roma e catturarlo nella Città eterna, servendosi di una graziosa esca chiamata Cheril Ben Tov, alias Cindy. Una volta portato in Israele, Vanunu fu processato per alto tradimento e spionaggio e condannato a 18 anni di carcere, di cui 11 da passare in isolamento. Secondo l’autorevole Bullettin of Atomic Scientists, dal 1967 lo Stato ebraico ha prodotto due ordigni all’anno, arrivando a possederne circa 80 nel 2004 (una quantità simile a quella di potenze nucleari come India e Pakistan). Lo stesso rapporto stima che Tel Aviv possieda materiale fissile per assemblare da 115 a 190 testate. Come abbiamo visto, Israele è molto bravo a proteggere i propri segreti quindi nessuno è in grado di specificare un numero preciso per le testate, tuttavia la comunità scientifica e militare internazionale stima che il numero vada dal centinaio alle 400 testate, tutte molto sofisticate perché, nell’arricchimento dell’uranio, gli specialisti hanno sviluppato tecniche all’avanguardia.
Dopo la Prima guerra del Golfo del 1991 fu evidente che gli stati arabi circostanti possedevano missili in grado di raggiungere il territorio di Israele. Da quel momento in poi, Tel Aviv si dedicò allo sviluppo di armi nucleari per l’utilizzo sul campo, come bombe al neutrone a basso potenziale con minime ricadute di fall out radioattivo, impiegabili quindi anche in teatri campali in territorio in cui fossero coinvolte truppe con la stella di Davide. Visto che le minacce strategiche potevano provenire anche dalla fascia esterna al Medio Oriente, Israele ha sviluppato un programma di ricerca finalizzato a costruire testate multiple a lunga gittata. Dal 19 settembre 1988, quando venne lanciato l’Ofeq-1, il primo stellite spia israeliano, lo Stato ebraico ha inoltre acquisito la capacità di individuare obiettivi anche senza la collaborazione degli Stati Uniti. L’arsenale ebraico include lo sviluppo del vettore Shavit, che ha portato alla produzione di Jerico III, un missile intercontinentale in grado di trasportare un carico di una tonnellata a circa 5000 chilometri di distanza.
Ci sono moltissime altre informazioni che sono reperibili sugli armamenti nucleari israeliani ma quanto detto finora dovrebbe essere sufficiente per capire che la parte del povero topolino indifeso che rischia di essere sbranato dal gattaccio cattivo mal si addice al criminale di guerra che ricopre attualmente la carica di primo ministro di Israele. Il regime teocratico di Teheran è sicuramente oscurantista e oppressivo e ha rappresentato, fino a un periodo recente, una fonte di finanziamento per il terrorismo islamista, insieme a Paesi come il Qatar (che pagava Hamas con l’approvazione di Netanyahu), gli Emirati Arabi Uniti o, nei decenni passati, l’Arabia Saudita (abbiamo dimenticato che Osama bin Laden era saudita?). Durante la fallimentare campagna per “esportare la democrazia” dell’amministrazione Bush, venne coniata la definizione di “stato canaglia” (Rogue State) per riferirsi ad alcuni stati, dotati di armi di distruzione di massa, che rappresentavano un pericolo per la pace mondiale. Forse l’Iran potrebbe essere inserito in questa categoria, ma anche Israele ha tutte le caratteristiche per rientrare nella definizione, visto che possiede armi nucleari, chimiche e batteriologiche, ritiene che i diritti umani vanno riconosciuti soltanto agli ebrei (alcuni ministri dell’attuale governo israeliano usano il termine “animali” per riferirsi ai palestinesi), e mostra un profondo disprezzo per il valore della vita umana. La società cosiddetta civile dovrebbe abbandonare una volta per tutte l’odioso e razzista metodo che si serve di due pesi e due misure e chiamare finalmente le cose col loro nome.
Galliano Maria Speri