India, la superpotenza culturale che trasformò il mondo antico (e potrebbe farlo anche con quello moderno)

Se pensiamo alle radici culturali dell’Occidente, la mente corre immediatamente al mondo greco-romano. Non riusciamo neppure a immaginare gli intensi scambi commerciali che la Roma imperiale intratteneva con l’India, né che questo Paese ebbe un ruolo cruciale nello sviluppo dell’astronomia, della medicina, della matematica, scienze che giunsero in Europa con la mediazione degli arabi. L’India, con le sue scuole monastiche buddiste, fu anche alla base della nascita delle università, molti secoli prima che comparissero nel nostro continente. La maggior parte degli storici concorda sul fatto che l’ordine globale seguito alla Seconda guerra mondiale sia ormai finito. Negli scenari futuri si immagina un ruolo determinante per gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, affiancati da una miriade di potenze regionali. Non dovremmo però dimenticare che l’India aveva una posizione centrale nel mondo antico e che, grazie alla sua potenza economica e demografica, potrebbe giocare un ruolo di primo piano anche per il nostro futuro. Con il suo ultimo saggio, tradotto egregiamente da Svevo D’Onofrio, lo storico britannico William Dalrymple colma una lacuna importante e ci fornisce preziosi strumenti per comprendere il mondo di domani.

Un lettore superficiale potrebbe chiedersi a cosa serve approfondire la conoscenza delle antiche religioni e filosofie indiane in un mondo scosso da terribili guerre e instabilità. Capire le radici di una storia che ha plasmato la cultura e dato un contributo cruciale alla nascita delle scienze matematiche, è fondamentale proprio per affrontare la fase di transizione attuale. Il saggio di Dalrymple ci ricorda infatti come le nozioni che stanno alla base della scienza moderna furono sviluppate in India, da lì raggiunsero il mondo arabo e, attraverso questo, l’Europa. Solo la Grecia era in grado di competere con l’India come fucina di innovazioni matematiche e astronomiche. All’epoca del grande matematico Aryabhata (476-550 d.C.) gli astronomi indiani avevano già correttamente avanzato l’ipotesi di una Terra sferica che ruota sul proprio asse, sviluppato il sistema numerico posizionale in base dieci e calcolato la durata dell’anno solare con una precisione fino al settimo decimale.

L’invenzione indiana dei numeri

Il nostro mondo digitale non sarebbe mai potuto nascere se avessimo continuato a servirci dei numeri creati dai romani. Per fortuna, durante il regno dell’imperatore Ashoka, nel III secolo a.C., nella regione indiana del Bihar degli studiosi inventarono nove segni con cui potevano essere indicati i numeri, chiamati oggi erroneamente “numeri arabi”. Dall’India provengono anche il sistema decimale, l’algebra, la trigonometria e gli algoritmi, insieme a numerose scoperte astronomiche. Verso la fine dell’VIII secolo, queste nuove nozioni giunsero a Baghdad grazie alla mediazione dei Barmecidi, una famiglia di abati buddhisti ereditari provenienti dall’Afghanistan, che conoscevano il sanscrito ma si erano convertiti all’islam e servivano la potente dinastia degli Abbasidi in qualità di visir. A Baghdad, i saperi indiani si fusero con quelli dell’antica Grecia e in città arrivarono molti studiosi indiani «che diedero avvio al movimento di traduzione in arabo dei classici scientifici sanscriti. Questo processo introdusse nella capitale della giovane civiltà islamica non solo i metodi indiani di guarigione e di osservazione degli astri, ma anche un’innovazione rivoluzionaria destinata a cambiare per sempre la storia della matematica: lo zero».

Nel XII secolo, i numeri indo-arabi erano noti in Europa da più di cent’anni; eppure, malgrado gli

Un foglio manoscritto del Liber abaci. Fibonacci ebbe un ruolo cruciale nella diffusione dei numeri indo-arabi nell’Europa del suo tempo.

sforzi di Gerbert d’Aurillac, un monaco francese appassionato di scienza e poi divenuto papa col nome di Silvestro II, il loro utilizzo restava limitato a una ristretta cerchia di eruditi, confinati nei monasteri e nelle nascenti università. A cambiare questa situazione fu Leonardo Bonacci da Pisa (ca 1175-1250), noto come «Fibonacci», probabilmente il più grande matematico dell’Europa medioevale. Il suo Liber abaci costituì il primo resoconto completo e dettagliato in latino del modus Indorum, il metodo degli indiani, che Fibonacci considerava superiore persino a quello di Pitagora. Questo testo divenne quindi la prima opera organica e sistematica dedicata all’algebra, alla geometria e alle cifre indo-arabe nell’Europa cristiana. Nel 1225, durante una visita a Pisa, Fibonacci ebbe modo di incontrare l’imperatore Federico II, che rimase molto colpito dalla capacità del matematico pisano di risolvere seduta stante problemi che spaziavano dall’algebra alle equazioni cubiche alle frazioni sessagesimali.

Grazie ai suggerimenti e alle osservazioni di Michele Scoto, un dotto che operava alla corte di Federico II, Fibonacci produsse una nuova edizione del Liber abaci la cui seconda parte fu concepita non solo per gli eruditi, ma anche per il pubblico mercantile italiano. Essa illustrava con chiarezza l’utilità e i vantaggi del sistema numerico indo-arabo, applicandolo alla contabilità, alla conversione di pesi e misure e altre operazioni essenziali per il commercio. «Il Liber abaci -scrive Dalrymple- forniva inoltre sistemi per convertire le diverse valute e calcolare profitti e interessi, e includeva metodi e algoritmi di calcolo risolvibili con carta e matita, liberando così i mercanti dalla necessità di usare l’abaco e rendendo i calcoli commerciali più rapidi e agevoli. Le sezioni aritmetiche dell’opera, in particolare, finirono per essere insegnate in tutta Italia, offrendo agli studenti non solo le basi dell’algebra e della geometria, ma anche le competenze contabili richieste nel mondo degli affari».

China vs India

Il saggio delinea con molta precisione che «dal 250 a.C. al 1200 d.C. circa, l’India era stata una fiera esportatrice della propria variegata civiltà, fino a creare intorno a sé un impero delle idee – una vera e propria “indosfera” – dove la sua influenza culturale risultava predominante. In questo periodo, il resto dell’Asia fu il destinatario consenziente e persino entusiasta di un colossale trasferimento di soft power indiano, in ambiti come la religione, l’arte, la musica, la danza, la tessitura, la tecnologia, l’astronomia, la matematica, la medicina, la mitologia, la lingua e la letteratura». Il sanscrito, che almeno per un millennio prima dell’era volgare era stata esclusivamente una lingua sacra, nei due secoli a cavallo della nascita di Cristo fu reinventato come lingua letteraria e politica e divenne in breve tempo una lingua franca in gran parte dell’Asia. Il buddismo si diffuse in tutto l’Oriente e, per diverso tempo, fu anche la religione ufficiale dell’impero cinese. Oggi, più di metà della popolazione mondiale vive in aree in cui le idee religiose e culturali indiane sono, o sono state, preponderanti, e dove un tempo le divinità indiane dominavano l’immaginazione e le aspirazioni di uomini e donne.

Secondo l’autore, «al pari dell’antica Grecia, l’India ha saputo fornire risposte coerenti e profonde alle grandi domande dell’esistenza: che cos’è il mondo, come funziona, perché siamo qui e in che modo dobbiamo vivere le nostre vite. E ciò che la Grecia fu prima per Roma, poi per il resto del mondo mediterraneo ed europeo, l’India lo è stata per il Sud-Est asiatico, l’Asia Centrale e persino la Cina, irradiando e propagando le sue filosofie, le sue idee politiche, le sue forme architettoniche nell’intero continente, non con la forza delle armi ma per pura attrazione ed emulazione culturale. In ambito scientifico, astronomico e matematico, l’India è stata maestra del mondo arabo e, per suo tramite, dell’Europa mediterranea». Oltre all’aspetto culturale, l’influenza delle divinità e delle religioni indiane, insieme al vasto apparato intellettuale, culturale e linguistico che le accompagnava, finì con l’estendersi in gran parte dell’Asia, dall’Afghanistan a ovest fino al Giappone a est, da Sumatra a sud fino alla Siberia a nord. Per quasi duemila anni, le religioni indiane hanno dominato il discorso religioso, teologico, filosofico, culturale, economico e politico del continente asiatico.

Eppure, tutto questo sembra dimenticato. Una ragione è certamente il fatto che, a differenza della Cina, l’India antica non fu quasi mai politicamente unita. Un altro fattore è che, per ragioni facilmente comprensibili, l’impero britannico operò attivamente per nascondere e sottovalutare la grande tradizione culturale e scientifica dell’India, perché altrimenti avrebbe avuto seri problemi a giustificare la “missione civilizzatrice” degli inglesi nel mondo. La Cina ha invece dimostrato grande abilità nel promuovere la narrazione secondo cui il Paese sarebbe sempre stato il fulcro del continente asiatico. Attraverso una rilettura della storia in chiave marcatamente nazionalista e sinocentrica, Pechino ha idealizzato l’attività mercantile lungo le Vie della Seta, presentandola come una rete di pacifici scambi globali incentrati sulla Cina stessa, raffigurata come il principale motore economico del commercio mondiale. Grazie all’abile propaganda cinese noi pensiamo oggi alla “Via della seta” come a un fenomeno secolare e consolidato e magari ci associamo pure Maro Polo.

Ferdinand von Richtofen (1833-1905) coniò nel 1877 la definizione “Vie della seta”, ripresa poi e fatta propria dalla propaganda cinese.

Dalrymple spiega invece che «pur essendo oggi ampiamente diffusa, l’idea di una Via della Seta era del tutto ignota nell’antichità e nel Medioevo: non esiste alcun documento antico, né cinese né occidentale, che ne faccia menzione. Fu invece concepita nel 1877 da un geografo prussiano, il barone von Richthofen, il quale, durante un rilevamento geologico in Cina, fu incaricato di ideare un percorso ferroviario che collegasse Berlino a Pechino, con l’obiettivo di favorire la creazione di colonie e infrastrutture tedesche nella regione. Richthofen definì tale rotta die Seidenstraßen, “le Vie della Seta” – la prima occorrenza del termine». Era l’India, non la Cina, che intratteneva intensi rapporti commerciali con l’impero di Roma, tanto da suscitare le proteste di Plinio il Vecchio che lamentava l’enorme deflusso di oro «attraverso un’operazione di questa complessità e un viaggio in terre così lontane si ottiene che una nostra matrona possa sfoggiare in pubblico vestiti trasparenti … Così l’India ci si fa più vicina: per avidità, e per il decadente bisogno delle donne di seguire la moda».

Oggi l’India è la quarta economia del mondo ma, secondo le proiezioni del Fondo Monetario Internazionale, diventerà la terza economia nel 2028, alle spalle di USA e Cina. Il ruolo globale dell’India assume quindi una grande rilevanza strategica per definire il mondo di domani. Dalrymple ci ricorda che «per oltre un millennio, le idee dell’India si propagarono lungo la Via dell’Oro al seguito dei suoi mercanti, trasformando il mondo e dando origine a un’indosfera: un’area culturale che travalicava i confini politici, paragonabile al mondo ellenizzato forgiato da Alessandro Magno, con la differenza che l’espansione indiana non avvenne con la spada, ma con la sola forza delle idee. All’interno di quest’area, la cultura e la civiltà indiane lasciarono un’impronta profonda su tutto ciò con cui entrarono in contatto». Il saggio si chiude chiedendosi se l’India, che dominò intellettualmente il mondo per più di mille anni, potrebbe ripetere l’impresa. La risposta a questa domanda ci dirà molto sul futuro che ci aspetta.

William Dalrymple
La via dell’oro
Come l’India antica
ha trasformato il mondo
Adelphi, pp. 555, € 35

Galliano Maria Speri