I dragon killers nostrani rischiano di trasformarsi in dilettanti allo sbaraglio

Il 21 luglio  2022 una improvvida manovra di palazzo ha portato alla caduta del governo Draghi, l’italiano più ascoltato e rispettato nel mondo. Le forze che lo hanno defenestrato, però, hanno agito in un’ottica localistica per puntare alle elezioni anticipate e aumentare il proprio consenso politico senza considerare lo scenario internazionale. Hanno preso in ostaggio un enorme transatlantico, non possedendo però alcuna idea di come si manovra una nave complessa in un oceano in tempesta.

Secondo i sondaggi, Giorgia Meloni potrebbe diventare il prossimo Premier e si troverebbe a guidare l’Italia in un momento di gravissime tensioni internazionali, senza aver mai avuto esperienze politiche dirette. Farà meglio di Mario Draghi?

Nominalmente, la responsabilità della sfiducia va ascritta al Movimento 5 Stelle, ma su questo scenario sono prontamente saltati Silvio Berlusconi e Matteo Salvini che intendono definitivamente archiviare il periodo dei “governi tecnici” e vogliono che siano i partiti a prendere tutte le decisioni esautorando gli “esperti”. Tutti i sondaggi assegnano da tempo una vittoria al centro-destra, trainata da Giorgia Meloni, al cui partito, Fratelli d’Italia, viene assegnato il 50 per cento dei voti. Il problema è che il mondo sta attraversando una delle peggiori congiunture internazionali dal secondo dopoguerra, in cui al cambiamento climatico si sta sommando la crisi energetica, una pandemia di Covid-19 che continua il suo percorso, l’inflazione più alta da decenni a questa parte, il profilarsi di una nuova recessione e, dulcis in fundo, le conseguenze della guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina. Con l’inizio della campagna elettorale sono riapparsi slogan già sentiti e risentiti, tutti volti a vellicare la pancia dei potenziali elettori, ma si riscontra la totale assenza di programmi realistici in grado di affrontare in modo credibile i mali antichi dell’Italia.

Slogan e programmi reali

Un personaggio come Mario Draghi, qualunque sia la valutazione sul suo operato a livello nazionale ed europeo, era ritenuto internazionalmente credibile e competente per portare a termine tutte quelle riforme necessarie alla modernizzazione dell’Italia e garantire anche la concessione dei fondi legati al PNRR, un’occasione irripetibile per rilanciare la crescita in un Paese che è fermo da decenni. Ma il mondo non è molto interessato alle dispute da campanile italiane, né palpita per le aspirazioni di Giorgia Meloni che, dando per scontata la vittoria alle elezioni del 25 settembre, già sogna di diventare la prima donna premier in Italia. Supponendo che i sondaggi siano corretti (anche se in passato hanno preso grandi abbagli), è necessario ricordare ai possibili vincitori e futuri governanti alcuni problemucci che travagliano il Bel Paese da decenni e che rappresentano un fardello che ci condanna alla stagnazione sociale ed economica.

In primo luogo, l’Italia ha un debito pubblico intorno al 150 per cento del Prodotto Interno Lordo (PIL), stimato da Mazziero Research a fine 2022 tra 2mila 720 miliardi e 2mila 761 miliardi. La stagione del denaro facile, dell’indebitamento crescente accettato da Bruxelles a causa della crisi è definitivamente terminata. Anche se il famigerato Fiscal compact rimane ancora sospeso, bisognerà pensare a una strategia per il rientro graduale del debito, abbandonando l’illusione di un salvagente automatico a livello europeo. Come si fa a conciliare questa realtà con la proposta delle pensioni minime a mille euro, la rottamazione delle cartelle fiscali, la flat tax e la difesa sfegatata di interessi particolari come quelli dei tassisti o delle concessioni balneari? Fare promesse elettorali è facilissimo ma se non si indicano le coperture per i provvedimenti che si vogliono realizzare il bluff diventa subito evidente.

Il prossimo governo dovrà lavorare in un contesto molto diverso da quello dei periodi di emergenza, con la crisi ucraina, l’alta inflazione e i tassi di interesse in aumento che fanno lievitare automaticamente il nostro debito. Il costo crescente dell’energia contribuisce al quadro fosco dell’economia. Nello stesso giorno in cui è caduto il governo Draghi, la presidente della BCE, Christine Lagarde, ha alzato i tassi di riferimento di mezzo punto e varato lo scudo antiframmentazione. Il nuovo meccanismo, denominato Transmission Protection Instrument (TPI) sarà impiegato, a totale discrezionalità della BCE, solo per quei Paesi che rispetteranno le regole di bilancio, dimostreranno che il loro debito è sostenibile, e soltanto nel caso in cui le dinamiche di mercato saranno ingiustificate e costituiranno un pericolo per tutti i membri della moneta unica.

A causa della crescente inflazione, la presidente della BCE, Christine Lagarde (nella foto), ha annunciato un aumento dei tassi di interesse il che implica una crescita del già enorme debito pubblico italiano.

Chi volesse essere protetto dal TPI non deve essere sottoposto a una procedura di Bruxelles per deficit eccessivo, ed è da tempo che la Commissione UE sta chiedendo all’Italia (anche con Mario Draghi a Palazzo Chigi) di ridurre la spesa pubblica in proporzione alle dimensioni della propria economia. Se la revisione delle pensioni fosse fatta in autunno con i costi di “Quota cento” nel 2018, questo non favorirebbe certo la distensione nei rapporti con Bruxelles, ponendo una pesante ipoteca sulla stabilità finanziaria dell’Italia. Anche gli slogan ripetuti contro l’immigrazione possono portare qualche voto ma non tengono conto della drammatica crisi demografica dell’Italia che, secondo il World Population Prospect, appena pubblicato dall’ONU, vedrà scendere sempre di più la propria popolazione, fino a toccare i 37 milioni nel 2099. Voler bloccare l’immigrazione in una società che invecchia e declina è semplicemente suicida.

Le tensioni mondiali

Il prossimo governo si troverà di fronte anche alle gravissime conseguenze della guerra in Ucraina, causa diretta della crisi energetica e dell’aumento del costo di gas e petrolio. Inoltre, l’invasione scatenata da Putin ha aperto nuovo spazio alla politica espansionistica della Turchia che, con la scusa della mediazione tra Russia e Ucraina, ha riconquistato uno spazio internazionale e rinforzato la sua strategia neo-ottomana, che l’ha spesso portata in rotta di collisione con l’Italia. Lo stesso è avvenuto per Mohammed bin Salman, il principe ereditario dell’Arabia Saudita, accusato dai servizi segreti USA di essere il mandante dell’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi e diventato persona impresentabile a livello internazionale. Poiché l’Arabia Saudita è il principale produttore mondiale di petrolio, l’amministrazione Biden e anche il presidente francese Macron sono stati costretti a riallacciare i rapporti col principe e chiedergli (inutilmente) di aumentare la produzione petrolifera per ridurre i prezzi, schizzati alle stelle a causa della guerra in Ucraina.

Nancy Pelosi, la terza carica istituzionale degli Stati Uniti, ha annunciato una sua visita a Taiwan che Biden può solo sconsigliare. Uno Xi Jinping, in difficoltà per la pandemia di Covid-19 e gli scarsi risultati economici, potrebbe puntare allo scontro per rinforzare la propria posizione.

Un altro possibile problema è la visita annunciata di Nancy Pelosi, lo speaker della Camera dei Rappresentanti USA, a Taiwan. Mentre il presidente Biden cerca di allentare le tensioni con la Cina, ventilando la possibilità di eliminare i dazi imposti da Trump, Pechino ha minacciato ritorsioni nel caso in cui la terza carica istituzionale degli Stati Uniti visitasse la capitale Taipei. I cinesi hanno addirittura ipotizzato di “scortare” l’aereo della Pelosi, prendendola virtualmente prigioniera e volando direttamente sul territorio dell’isola “ribelle”, una provocazione che Washington non potrebbe accettare. Biden ha dichiarato che, secondo i generali di Washington, la visita della Pelosi “non è una buona idea”, ma la Casa Bianca non può che limitarsi a sconsigliarla. Qualche analista si è chiesto se di fronte allo sbarco di Nancy Pelosi a Taiwan i cinesi sarebbero disposti a rischiare una crisi al buio. La risposta è stata affermativa, perché Xi Jinping, presidente e segretario del Partito comunista cinese, si prepara al XX Congresso del partito che dovrà accordargli altri cinque anni di potere e non può certo presentarsi dopo aver subito un’umiliazione a Taiwan. Inoltre, la crescita economica è inferiore alle previsioni, la politica imposta da Xi di “zero Covid” solleva sempre più mugugni e aperte ribellioni, la strategia della “Nuova via della Seta” arranca e, secondo i dati del Pew Research Center che ha misurato le opinioni pubbliche di 19 Paesi, il 68 per cento degli intervistati ha un’opinione “non favorevole” della Cina. Tutti elementi che favorirebbero una prova di forza con gli Stati Uniti per rinsaldare la posizione interna grazie a un acceso nazionalismo. I nostri futuri governanti, tutti presi nel definire i simboli, gli equilibri interni, le liste elettorali e i nomi di candidati, hanno idea di cosa li aspetta a livello internazionale?

Galliano Maria Speri