Dalla fine del secolo scorso il Sudan, uno dei più estesi stati africani, è travagliato da guerre intestine, ha subìto la drammatica secessione di un vasto territorio e, dal 2023, è lacerato da una feroce guerra civile che vede contrapposto l’esercito regolare e varie milizie che si contendono il potere. Per numero di morti e di profughi è unanimemente riconosciuta come la peggiore crisi umanitaria al mondo ma, finora, sono falliti tutti i tentativi di pacificazione perché le due parti in conflitto sono sostenute da forze regionali contrapposte che lottano per il controllo dell’area e considerano il Sudan come un fondamentale raccordo tra il Mar Rosso e l’Africa centrale, la più grande concentrazione di minerali strategici al mondo. Ecco perché la soluzione del conflitto non è vicina.
La guerra civile, che vede scontrarsi le Forze armate sudanesi (SAF) e le Forze di supporto rapido (RSF) ha fatto finora 150mila vittime e ha costretto alla migrazione forzata 12 milioni di persone (4 milioni si sono rifugiati nei Paesi confinanti). Secondo il Programma alimentare mondiale, 24,6 milioni di persone, che corrisponde a metà della popolazione, soffrono di gravi carenze alimentari, mentre 637mila rischiano di morire di fame. Il comitato internazionale della Croce Rossa ha dichiarato che il Sudan sta affrontando la peggiore epidemia di colera degli ultimi anni e che in un’area della capitale Khartum ci sono 5mila casi di malaria, febbre tifoide e Dengue. Nel 1989 salì al potere con un colpo di stato il generale Omar al-Bashir che ha retto il Paese con il pugno di ferro. Dopo una ventennale guerra civile, nel luglio del 2011 la parte meridionale del Paese (estesa quanto l’intera Francia) dichiarò la propria indipendenza, diventando lo stato più giovane del mondo e prendendo il nome di Sudan del Sud. La popolazione del Sudan ha raggiunto i 50 milioni di cittadini e, nonostante la secessione, possiede una superficie maggiore di quelle di Italia, Francia, Germania e Spagna messe insieme.
Le radici del conflitto attuale risalgono alla fine del 2018 quando ci furono grandi proteste popolari contro la dittatura di al-Bashir e la “società civile” scese in piazza per chiedere libertà e modernizzazione. Il capo dell’esercito, generale Abdel Fattah al-Burhan, colse l’occasione al volo e si alleò con il generale Mohamed Hamdan Dagalo (noto anche come Hemedti), un ex signore della guerra che con la complicità di al-Bashir aveva commesso atroci crimini di guerra nella regione del Darfur. Nell’aprile del 2019 i due deposero il dittatore, sulla cui testa pendeva un mandato di cattura della Corte penale internazionale per genocidio e crimini di guerra commessi nel Darfur. La caduta di al-Bashir e la nascita di un governo civile che avrebbe dovuto guidare il Paese verso la democrazia accesero molte speranze, in Africa e nel mondo. Purtroppo, l’ottimismo durò soltanto fino al 2021, quando al-Burhan e Dagalo si allearono nuovamente per rovesciare il governo civile e instaurare una precaria alleanza che avrebbe retto fino all’aprile del 2023, quando è esplosa la feroce guerra tuttora in corso che vede la contrapposizione tra le SAF, guidate da al-Burhan e le RSF, capeggiate da Dagalo.

Le SAF sono composte dall’esercito regolare a cui si sono però aggregate varie milizie islamiste che, a volte, hanno cambiato fronte, a seconda di come si evolvevano gli scontri. Le RSF sono invece una forza paramilitare derivata direttamente dalle milizie arabe note come Janjaweed che, in alleanza col dittatore al-Bashir, hanno commesso ripetute atrocità contro la popolazione africana nella regione del Darfur. I Janjaweed sono milizie islamiste che puntano alla pulizia etnica del Darfur, soprattutto contro la popolazione dei Masalit e di altri gruppi etnici. I Masalit fuggiti in Ciad hanno raccontato di donne e ragazze che hanno subìto violenze di gruppo e di ragazzi a cui è stato sparato nelle strade. Secondo un rapporto ONU del novembre 2024 i combattenti della milizia avevano dichiarato che avrebbero costretto le donne nere a partorire “bambini arabi”. Il 6 ottobre 2025 la Corte penale internazionale dell’Aja ha emesso la sua prima condanna legata al conflitto in Darfur contro il comandante dei Janjaweed Ali Muhammad per crimini di guerra e crimini contro l’umanità tra cui omicidio, stupro, tortura e attacchi sui civili. A gennaio 2025 gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni sia contro l’esercito che contro le Forze di supporto rapido e hanno dichiarato formalmente che le RSF avevano commesso un genocidio, il che significa che in meno di 30 anni è la seconda volta che viene commesso un genocidio in Sudan.
Il ruolo degli Emirati Arabi Uniti
Tra il 25 e il 26 ottobre 2025 le RSF sono riuscite a conquistare la città strategica di Al Fashir, capitale del Darfur settentrionale, dopo un assedio medievale durato più di un anno. Ci sono ora centinaia di migliaia di profughi che cercano di fuggire dalla città e sono rimasti intrappolati dagli scontri. Tutti gli appelli dell’ONU per la creazione di un corridoio umanitario sono rimasti inascoltati. L’organizzazione mondiale della sanità ha denunciato che durante un attacco al Saudi Maternity Hospital, l’unico funzionante della città, sono stati uccisi 462 pazienti. La caduta di Al Fashir rappresenta un duro colpo per le truppe governative che controllano la capitale Khartum, riconquistata da poco ma ormai ridotta a un cumulo di rovine, e la parte orientale del Paese. Lo scontro si sposta ora verso il Kordofan settentrionale, senza che appaiano possibili soluzioni all’orizzonte.
Con la conquista di Al Fashir le RSF hanno acquisito il controllo dell’intero Darfur e c’è il rischio concreto che puntino a uno scenario libico e alla creazione di un governo separato da quello di Khartum, frazionando ulteriormente un Paese che ha già perso una parte importante di territorio. A maggio 2023, poco dopo lo scoppio della guerra civile, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita avevano messo a punto un piano per porre fine al conflitto ma entrambe le forze in campo non hanno rispettato gli impegni presi perché siamo di fronte a una guerra civile foraggiata da interessi esterni che perseguono propri obiettivi strategici di lungo termine e sono totalmente indifferenti agli enormi costi umani pagati dalla popolazione locale.

Il declino dell’ordine liberale internazionale ha avuto pesanti ripercussioni sulla vasta area che comprende il Mar Rosso, il Golfo di Aden, il Corno d’Africa e la Penisola arabica. Negli ultimi anni un numero crescente di attori, sia regionali sia esterni, ha intensificato la propria attività nell’area, sulla scia di specifici interessi economici e di sicurezza. Poiché un effetto collaterale della crisi del 2008 è stato quello di generare un forte aumento dei prezzi alimentari, questo ha portato i Paesi del Golfo a elaborare strategie per l’autosufficienza alimentare e fare notevoli investimenti nel settore agro-alimentare. Come conseguenza, si è intensificato il fenomeno del land grabbing (l’acquisto di grandi estensioni di terreni coltivabili, come fa la Cina da ormai un decennio). Inoltre, il riorientamento della politica estera statunitense verso l’Oriente e le conseguenze delle cosiddette “primavere arabe” hanno aumentato notevolmente l’interesse del Golfo verso il Corno d’Africa. Con le sue abbondanti risorse d’acqua e le vaste estensioni di terra fertile, il Sudan si trova a rivestire il ruolo di incrocio fondamentale per le future dinamiche geostrategiche della regione.
Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno cercato di stringere legami più profondi con i Paesi africani, specialmente il Sudan. La relazione si è sviluppata attraverso accordi militari e politici, legati soprattutto alla guerra in Yemen. Il Sudan ha inviato almeno 40mila soldati a combattere a fianco della coalizione a guida saudita che si scontrava con i ribelli Houthi sostenuti dall’Iran. La maggior parte delle truppe sudanesi era composta da veterani del Darfur e apparteneva all’RSF. Entrambi gli stati erano contrariati dai legami sempre più intensi che il dittatore al-Bashir stringeva con la Turchia e il Qatar e temevano un rafforzamento del blocco islamista nella regione. Ma dopo la sua caduta nel 2019, la strategia di sauditi ed emiratini si è differenziata perché entrambi hanno pensato di potersi avvantaggiare del vuoto di potere e hanno iniziato a sostenere fazioni diverse all’interno dell’apparato militare e di sicurezza sudanese e questo ha ulteriormente esacerbato le tensioni esistenti tra SAF e RSF. Riad, in alleanza con l’Egitto, ha mantenuto stretti contatti con al-Burhan, mentre Abu Dhabi si è schierata con Dagalo.
Gli Emirati Arabi Uniti fanno da sempre una politica molto assertiva, soprattutto dal punto di vista militare e, negli anni, sono riusciti a creare una vasta rete africana che opera in Libia (dove hanno collegamenti con il generale Kalifa Haftar), Ciad, Sudan del Sud, Repubblica Centrafricana, Uganda, Somalia, Etiopia. Nonostante le ripetute smentite ufficiali, è ben noto che Abu Dhabi è il principale fornitore di armamenti alle RSF che vengono caricati su cargo e voli privati, raggiungono il Ciad o la Libia e, da lì, arrivano al generale Dagalo. Una conferma ulteriore dell’appoggio di Abu Dhabi si è avuta nel luglio del 2024 quando su vari terreni di scontro in Sudan sono stati trovati passaporti emiratini per cui si può supporre che, oltre a fornire armi, ci siano anche militari degli Emirati che combattono sul campo. La relazione col capo delle RSF ha anche un risvolto economico perché l’impero economico della famiglia di Hemedti, come è soprannominato da tempo, ha la sua base a Dubai, dove suo fratello Algoni Dagalo ha contatti diretti con Mansour bin Zayed, il vice presidente emiratino.
L’oro e la guerra civile
Oltre a rappresentare una grave decurtazione di territori, la secessione del Sudan del Sud del 2011 ha comportato la perdita del 75 per cento delle riserve petrolifere e del 90 per cento delle entrate in valuta straniera. Nello stesso anno, alcuni minatori artigianali scoprirono ricchi giacimenti d’oro nella regione di Jebel Amer, nel Darfur settentrionale. Questo fatto, unito al repentino aumento del valore del metallo giallo a livello mondiale, spinse il dittatore al-Bashir a centralizzare l’estrazione e la raffinazione dell’oro. Venne quindi creata nel 2012 la Sudan Gold Refinery, controllata dalla banca centrale sudanese, attraverso cui doveva passare tutta l’esportazione dell’oro. In un solo anno, l’oro aveva assunto un ruolo così centrale da rappresentare il 60 per cento delle esportazioni sudanesi e questo aveva ulteriormente intensificato la lotta per il controllo del territorio del Darfur. Già nel 2017 le RSF di Hemedti controllavano la maggior parte delle miniere d’oro della regione attraverso la Al Gunade Company (di proprietà di un fratello) e quando il dittatore al-Bashir raddoppiò la tassa sull’oro questo creò forti tensioni con le RSF. Nel periodo successivo alla caduta di al-Bashir fu proprio la lotta per il controllo dell’estrazione e la commercializzazione dell’oro che contribuì allo scoppio della guerra civile.
Dopo l’inizio delle ostilità, le compagnie minerarie straniere, operanti soprattutto nell’est del Sudan sotto il controllo delle SAF, se ne andarono mentre le regioni sotto il controllo delle RSF dove l’estrazione mineraria era ancora fatta a livello artigianale non furono danneggiate troppo dalle ostilità. Un rapporto di esperti ONU ha calcolato che nel 2024 la produzione di oro nelle regioni controllate dalle RSF sia stata di circa 10 tonnellate, equivalenti a 860 milioni di dollari. Anche se i dati ufficiali non sono molto affidabili (si calcola che il contrabbando copra tra il 50 e l’80 per cento dell’intera produzione) si è riscontrata un’intensa attività estrattiva da parte di entrambe le forze in campo, il che ha portato al raddoppio della produzione di oro che assume un ruolo centrale nel finanziamento degli scontri.
Chi è il principale acquirente dell’oro sudanese? Ovviamente è Abu Dhabi. Le RSF lo fanno

arrivare negli Emirati tramite la Libia, il Ciad e il Sudan del Sud. Le SAF del generale al-Burhan, invece, privilegiano la rotta che passa per l’Egitto, in modo da ridurre il flusso del metallo giallo che arriva negli Emirati, visto il sostegno che forniscono alle RSF. In un rapporto dell’ISPI, pubblicato il 25 aprile 2025, Sara De Simone ha scritto che ci sono solide prove fattuali per ritenere che l’oro esportato in Egitto finisca poi anch’esso ad Abu Dhabi, come pure quello proveniente dall’Eritrea. Anche i russi partecipano al gioco poiché finanziano notoriamente le proprie operazioni militari in Africa con il traffico d’oro. Nell’aprile del 2024 un funzionario russo si è recato a Port Sudan, diventata la capitale amministrativa informale del Paese dopo lo scoppio della guerra civile, e ha ottenuto una concessione per la ricerca dell’oro per conto di una impresa mineraria russa e, ancora più importante, un accordo tra le due banche centrali in modo da permettere a Mosca di pagare in rubli e al Sudan di usare i rubli per l’acquisto di armi russe.
La crisi umanitaria in Sudan non è trascurata dall’opinione pubblica mondiale: è semplicemente ignorata. L’amministrazione Trump si è completamente disinteressata della guerra civile, resa ancora più drammatica dal taglio dei fondi US Aid. La Cina, la principale presenza economica nel continente africano, si è limitata a un sostegno formale al governo di al-Burhan riconosciuto internazionalmente ma si è ben guardata dall’intraprendere qualunque mossa per un compromesso che porti a una soluzione negoziata. Tra il 2002 e il 2005 il Kenya, la principale economia dell’area, ebbe un ruolo centrale nel mediare gli accordi che portarono alla nascita del Sudan del Sud e ha tentato di giocare un ruolo simile nella guerra civile in corso ma ha fatto l’errore di ospitare nel febbraio del 2025 una conferenza con le RSF e le altre forze che si oppongono al governo centrale. Il risultato di questa conferenza è stata la proclamazione di un governo autonomo nelle aree controllate dalle RSF. Come rappresaglia, il Sudan ha richiamato il proprio ambasciatore e ha sospeso gli scambi commerciali con il Kenya.
La principale potenza che continua a finanziare le RSF di Hemedti è Abu Dhabi che, evidentemente, valuta di poter trarre grandi vantaggi da questo sostegno in termini di influenza e penetrazione in Africa. In questa politica aggressiva l’unico ostacolo è rappresentato dalla Turchia che aveva sviluppato un solido rapporto con al-Bashir ma si è trovata spiazzata dalla sua rimozione. Lo scoppio della guerra civile ha permesso al presidente Erdoğan di rientrare nel gioco e di contrastare le ambizioni egemoniche degli Emirati Arabi Uniti. Ankara e Abu Dhabi hanno un rapporto complesso, entrambi sono schierati nel sostenere il presidente etiope Abiy Ahmed, ma in Libia, Somalia e Sudan si trovano su fronti contrapposti. Quando sembrava che le truppe di Hemedti sarebbero riuscite a prevalere sul campo, la Turchia ha fornito alle SAF i droni Bayraktar che hanno permesso la controffensiva che ha portato alla riconquista di Khartum e di altre regioni nell’area centrale del Paese. La situazione del Sudan è ormai diventata molto simile a quella della Libia, dove si fronteggiano due governi e due schieramenti armati, senza che nessuno dei due prevalga e senza iniziative efficaci che riescano ad aprire un negoziato.
Il 15 aprile 2025 si è tenuta a Londra una conferenza con Regno Unito, Germania, Francia e Unione Africana ma quest’ultimo tentativo diplomatico per il Sudan è naufragato miseramente, soprattutto perché gli Emirati Arabi Uniti da una parte e Arabia Saudita ed Egitto dall’altra non sono riusciti a trovare una formulazione comune accettabile. Il Sudan si trova all’incrocio di sistemi regionali multipli -il Corno d’Africa, il Mar Rosso, il Sahel e la valle del Nilo- e rappresenta un collegamento cruciale con l’Africa subsahariana che negli ultimi anni è diventata il centro del fondamentalismo islamista, ormai espulso dal Medio Oriente. Se l’instabilità sudanese arrivasse a saldarsi alle crisi di Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Repubblica Centrafricana l’Europa verrebbe a trovarsi in una situazione molto delicata e rischiosa.
Galliano Maria Speri
